“Qualcosa di simile” è stato uno tra gli esordi meglio accolti del 2011: si è aggiudicato il Premio Fucini 2011 per la miglior raccolta di racconti ed è valso all’autrice numerosi consensi, raffronti con scrittrici di rango come Alice Munro, Shirley Jackson e Yoko Ogawa. Perché?

Parto da lontano: può ancora oggi l’arte del racconto serbare autentici doni. Dico racconto, riferendomi, più che al narrare in generale, al racconto breve, la novella – evolutasi poi nella short story anglosassone – forma di narrazione antichissima e tra le più nobili, diventata la tipologia più snobbata da un’editoria che per ragioni quasi sempre ‘extranarrative’ oggi le predilige i più pletorici romanzi fiume; persino la poesia, ancor meno vendibile, le è talvolta preferita. Un familiare peccato di miopia culturale, una tara che non permette più una valorizzazione di quella che dai tempi del Boccaccio, per la concisione di cui necessita, è la misura letteraria che di un genere e di un autore può davvero mostrare la maturità, le potenzialità, come i limiti, tematici e stilistici.

Rimangono per fortuna le “voci off”, scrittori, editori che seguendo il cuore del proprio gusto, assicurano ancora rarità come “Qualcosa di simile”.
La prestigiosa Italic – ex Pequod, responsabile nella persona di Marco Monina di importanti esordi dello scorso decennio – ci ha scommesso, la suggestione e le qualità narrative del long-selling sono prevalse sulle consuetudini del mercato e il risultato è questo elegante libretto da dieci storie, fiori semplici e seducenti che la trentenne musicista milanese Francesca Scotti sistema in una sorta di ‘meta romanzo’ dai riflessi indistinti di una realtà trasognata.

Il libro è questo: un ikebana di bellezza semplice e misterica, a tratti umbratile e indecifrabile, composto di luoghi, figure e dimensioni che, orbitano tutte, a distanze variabili, intorno alle zone critiche del vissuto – crescita, evoluzioni personali, nascita e fine dei rapporti, e i susseguenti ripiegamenti patologici, il caos centrifugo che mina i momenti di decisione.

Una giovane donna pronta a festeggiare il proprio ritorno a casa, dopo una permanenza in clinica; un singolare medico in ritiro che decide di sbarazzarsi del chiassoso cane dei vicini; l’avventrice di un misterioso ristorante; un gruppo di studentesse in vacanza nella villa della compagna più odiata; un marito in crisi a caccia insieme a suo padre; una ragazza in trasferta a Tokyo, vittima di incubi, di una singolare ospite e di bizzarre coincidenze. Questi alcuni dei protagonisti, e poi il cibo e la musica, maestre e allievi di musica, l’Italia e il Giappone, distanze fisiche ed esperienziali che si sfiorano; privati fatti di gesti, rituali, percezioni e oggetti che più che il segno di aspirazioni sono sempre puntelli di un disagio profondo.

Sono le dicotomie, gli sdoppiamenti, le polarità, i simboli ricorrenti, la cifra di queste storie bizzarre e labirintiche, collegate da una sottilissima tela di compresenze e rispecchiamenti. Organizzate secondo uno schema che reca tracce evidenti dell’interesse dell’autrice per l’estremo Oriente e del suo background musicale.
Al varco di ogni episodio è evidente la ricerca di una purezza che investa i sensi, un ordine emotivo attraverso un ordine sensoriale, ma poi emerge lento e inevitabile il sostrato afono di una realtà liminare per cui tale ordine non è che quell’unico velo sottile che a stento separa i protagonisti dal baratro.

Sottile e lineare come un ago ipodermico, la scrittura della Scotti tasta le zone sensibili, ne infila con precisione la superficie, generando increspature nelle simmetrie ingannatrici: l’ordine ne è stravolto e sull’incanto di ogni scoperta pesa ineludibile il livore del malessere, mai disgiunto dal cambiamento. Il motore segreto è proprio una prosa naturalistica, diretta ai fatti e alle intenzioni che nelle svolte scarta dal quotidiano, sublimando in un vapore rarefatto di immagini, di situazioni criptiche e dissonanti che restano sospese, precipitano interiormente, generando catabasi – mai catarsi liberatorie.

Non è da tutti poter vantare sulle prime un simile impianto poetico, quasi teorico nella sua coerenza di senso, reso unico da un’abilità dissimulatrice che rende avvolgente la semplice normalità e tanto più inatteso l’inabissamento. Così, pur non lesinando qualche imperfezione (lo scrupolo della sintesi, la brama di concisione è ancora, in rari casi, una trappola per l’esattezza espressiva), un giovane talento può arrivare a esprimersi su livelli di ricchezza simbolica difficilmente riscontrabili nel novero della recente narrativa di stampo realista.

Una esperienza artistica che per contenuti, riferimenti culturali e personalità, oltrepassa le demarcazioni di tanta letteratura nazionale. Lettura necessaria, ad alto, altissimo tasso emotivo.