“Ciapà!” esclamò ghignante l’uomo, nel momento in cui calava la sua grassa mano unta sulla mosca che, imprudentemente, era atterrata sulla tavola vicino al pezzo di pane.

Esaminandosi il palmo, scoprì con soddisfazione il cadavere dell’insetto rimasto incollato che, con un gesto tanto disinvolto da apparire abituale, venne prontamente trasferito sulla canottiera dell’uomo, tra una grossa macchia di sugo ancora fresca e qualcosa che poteva serenamente essere una caccola.

Antonio Scoassin, noto ad Arzerello anche come Toni Scoassa (nomen omen, evidentemente non solo per assonanza col cognome), riprese quindi il proprio pranzo continuando a sgranocchiare con una mano gli scampi rimasti dai tre etti di spaghetti alla busara, con l’altra il pezzo di pane il cui spazio aereo era stato violato dall’insetto morto.

Mentre risucchiava rumorosamente i crostacei, pensò che doveva risolvere il problema delle mosche in casa. Di ciò dava la colpa al caldo il quale, sosteneva, faceva impazzire gli insetti che, nella campagna della Saccisica, erano presenti in maniera massiccia. Non lo sfiorava minimamente l’idea che, forse, gli insetti più che dal caldo fossero attirati dallo sporco più o meno diffuso in casa, ad esempio le numerose stoviglie lercie che giacevano da giorni nel lavabo della cucina.

La discesa dell’ultimo scampo fu facilitata da una lunga sorsata, operata in apnea, di birra ghiacciata. Dopo di che, pulitosi sommariamente dal sugo le mani, la bocca e la notevole pappagorgia che si ritrovava e passatosi lo stesso tovagliolo tra le pieghe del collo per asciugarsi il sudore, Toni Scoassa sollevò i suoi 100 chili di grasso dalla sedia in fòrmica su cui stavano posati, per traslocarli – ciabattando – sul divano sfondato.