Romeo fra le nebbie della Romea

Tracklist consigliata:

  • Steve Ray Vaughan – Tin pin Alley
  • Nick Cave – Red right hand
  • Shivaree – Goodnight Moon
  • Joey Ramone – What a wonderful world

Ogni giorno. Ogni santo giorno per cinque giorni a settimana. Partenza da Agna alle ore 21.00 ed arrivo a Taglio di Pò alle ore 22.30, nebbia permettendo.

Si scarica, si firma il documento di trasporto e si riparte. Arrivo previsto di nuovo ad Agna verso le due, sempre nebbia permettendo.

La Monselice Mare è una strada che fa schifo. Una striscia di asfalto nero, diritta come un righello, che corre attraverso la bassa Padovana. Brutta e monotona come una suocera e come non bastasse, pure pericolosa come una suocera.

Terminati finalmente quei trenta chilometri si entra poi in Romea. Un’altra strada della morte. Decine e decine di vittime ogni anno. Anche questa, dritta, monotona e terribilmente squallida. Non si contano i ristoranti per camionisti ed i ristoranti di pesce sparsi ai suoi lati, grandi come astronavi e mai ristrutturati dagli anni sessanta. Strutture decadenti da quattrocento posti a sedere e che ora vengono sfruttate forse per un triste dieci percento.

Ci sono poi i campi di radicchio, tanti campi di radicchio, contornati dalle caratteristiche baracche in lamiera ondulata ed arrugginita, o peggio, costruite con un Eternit ormai quasi del tutto sbriciolato. Con un pò di fortuna, su queste ridenti baracche, si possono vedere appiccicati pezzi di manifesti ormai sbiaditi, con in grande la facciona sorridente della Moira Orfei, nell’anno del Signore 1987. Un tragitto che mette allegria come la sifilide, se ci si aggiunge la nebbia per almeno sei mesi all’anno ed il fatto di percorrerlo solo ed esclusivamente di notte.

Questo è il lavoro di Romeo Lazzarato, quarantadue anni, una pancia da bevitore, capelli lunghi e ricci, occhi porcini ed i primi capillari rotti ai lati del naso. Guida ogni notte la sua autobotte carica di sostanze tossiche fino a Taglio di Pò, dove una ditta specializzata si occupa dello smaltimento di queste acque contaminate. Lavora per la “Freccia Padana”, ditta a conduzione familiare di Solesino e gestita da Mosè Mosole, uomo cinquantacinquenne di quel nordest che si è fatto tutto da solo. A sentire il Mosole la scuola non serve letteralmente ad un cazzo. Una totale perdita di tempo. Al massimo fino alla terza media, giusto perché bisogna saper fare due conti e non farsi inculare dai fornitori. Un valore personale trasmesso ovviamente a tutta la sua famiglia. Due figli, una ragazza di ventiquattro anni ed uno di ventuno. Lei gestisce l’amministrazione, il centralino, il ricevimento, gli ordini, le fatture, i rapporti con i fornitori, l’iva, le pratiche varie e se serve fa pure le pulizie. Il maschio è in magazzino, ad occuparsi delle spedizioni di acque cariche di cianuri e altre porcherie. La moglie del Mosole, invece, dà una mano in amministrazione, tiene in ordine la villa in stile “via col vento” che è dietro all’azienda e segretamente beve litri di vino e di Sambuca per dimenticare la vita d’oro e di merda che il marito le fa condurre. Mosè segue invece la parte commerciale. Tiene i rapporti con i clienti, con i quali tratta i prezzi a suon di bestemmie. Il suo ufficio è una coltre di fumo, con pile di carte accatastate tenute assieme da elastici ingialliti e un paio di consunti calendari di donne nude inchiodati dietro alla porta d’entrata. Appesa invece con orgoglio, nel muro dietro alla scrivania, campeggia una pagella di quinta elementare targata “secondo trimestre 1969”. Un modo per ricordare a tutti che nella vita basta la furbizia e la scaltrezza, altro che lo studio.

A completare l’organigramma aziendale, infine, Romeo Lazzarato. Unico dipendente e lavoratore full time, ma in regola con un contratto part-time… tanto per risparmiare un pò sulle tasse e fregare Roma. Anche lui segue la filosofia del suo capo. Terza media presa a stento, ma a differenza del suo datore di lavoro, il buon Dio non lo ha dotato né di furbizia né tantomeno di scaltrezza. Segretamente innamorato di Suellen, la figlia di Mosè, il Lazzarato sogna intimamente di sposarla e di ereditare un giorno tutto l’impero della “Freccia Padana”, sempre che nel frattempo esso non venga dilapidato da Denis, il brufoloso primogenito già innamorato della cocaina e delle lap dance della bassa padovana.

Questo è il microcosmo dei “Mosoles”, l’unica vita che conosce il Lazzarato. Caricare il camion verso le otto della sera, sbrigare un paio di carte, partire, annaffiare, scaricare, quindi tornare a casa. Ecco, annaffiare. Si, perché questo è il secondo e più importante lavoro di Romeo. Un vero colpo di genio partorito dal suo capo e padrone qualche anno addietro. In pratica il suo lavoro consiste in questo: Partire da Agna e fermarsi nel primo spiazzo della Monselice Mare. Scendere dal camion e con il pretesto di pisciare, aprire un piccolo rubinetto sotto alla cisterna, una normale valvola di sfiato che si usa durante i lavaggi dell’interno. A questo punto risalire in cabina e ripartire. Durante i settanta chilometri che lo separano dalla destinazione, semina per la strada qualcosa come mille litri di acqua contaminata. Nessuno se ne accorge perchè è notte ed in ogni caso il sottile filo d’acqua apparirebbe come un normale sfiato di condensa dell’aria condizionata. Le jeux son fait.

Questi cinquemila litri di scorie che spariscono ogni settimana fruttano al grande Mosè circa tremila euro puliti puliti. Il gioco è semplice. La “Freccia Padana” per smaltire 1000 litri, chiede ad una azienda un compenso “x”. Incassati i soldi, spende solo per lo smaltimento di 900 litri… la rimanenza, oltre che a finire sulla strada, serve al Mosole per l’acquisto dell’ultima versione dell’Audi A8 da esibire alla domenica mattina sul sagrato della chiesa. Un ingranaggio perfetto che frutta nelle cinquantadue settimane che compongono un anno la bellezza di centocinquataseimila euro puliti puliti, chiaramente esentasse.

A questa cifra va ovviamente aggiunto il normale guadagno dello smaltimento regolare dei rifiuti tossici. E queste, signori miei, non sono cose che si insegnano alla Bocconi di Milano. Questa è la scuola di vita di Mosè Mosole e della sua fottuta quinta elementare.

Ma come tutti sanno, ogni ingranaggio, anche il migliore, a volte si può rompere e quando questo succede, anche tutti gli altri si fermano. E qui entra in gioco il Lazzarato, che è appena salito in camion e che si appresta, come ogni santa notte, a guidare fra le nebbie della Romea. E’ particolarmente stanco, perché reduce da un giro di ramino e da svariati Fernet, bevuti fra i tavoli della saletta privè del Bar Centrale del suo paese. Giunto a metà strada, i suoi occhi porcini sono ridotti ad una fessura invasa dalle lacrime e qualche chilometro più avanti la testa comincia a ciondolargli come un lampadario di cristalli durante un terremoto. Decide di fermarsi al primo bar per bere un caffè doppio, magari accompagnato da un altro Fernet corroborante. Ne trova uno un paio di chilometri più avanti. Un bar talmente di merda da riuscire a deprimere anche un neovincitore di un sei milionario al superenalotto.

Romeo entra, grattandosi distrattamente con una mano i capelli e con l’altra le palle. Ordina al barista e un paio di minuti più tardi, mentre dopo aver finito il caffè se ne sta tutto intento a degustare il suo amaro, ecco entrare dalla porta due poliziotti. Ordinano caffè anche loro. Romeo, consapevole di avere dentro al cesso che erroneamente chiama stomaco, la bellezza di undici Fernet e solamente un paio di tramezzini tonno e cipolline, distoglie lo sguardo dai due e per darsi un contegno, finge di mandare un messaggio con il telefonino. Consumato il caffè, i due agenti, dopo aver salutato, prendono la porta ed escono. Il Lazzarato, con la fronte imperlata dal sudore, chiede del bagno e va a darsi una rinfrescata. Ne approfitta anche per espletare i suoi bisogni corporali, dopodiché se ne esce con aria soddisfatta. Ho mangiato solo due tramezzini ed ho cagato come un toro. Mah! In compenso mi sembra di aver pisciato un litro di Fernet, visto che era tutto marrone. Comunque, adesso via dritti a taglio di Pò. Cazzo, gli sbirri mi hanno fatto prendere un mezzo infarto. Cosa gli avrei detto? Sì, guido un camion che trasporta rifiuti tossici, agente. No, guardi, ho bevuto solo undici amari, ma mi creda, sono sobrio come un giudice, io l’alcool lo reggo bene. Pensi che l’ho già pisciato tutto. Vede, questo dimostra che l’ho già smaltito, o che forse mi sono fottuto i reni, chi lo sa…

Assorto in questi profondi pensieri, Romeo arriva in parcheggio, ma a pochi passi dal suo camion si blocca, come folgorato da una paralisi improvvisa. Uno dei due agenti sta illuminando con una torcia la pancia della sua cisterna. L’altro agente lo sta fissando. L’ingranaggio comincia a cigolare… “E’ suo il camion?” “Sì, cioè no. Io lo guido e basta”.  “Abbiamo visto che esce dell’acqua da sotto, lei ne sa nulla?”

Romeo rimane zitto per qualche secondo, mentre fra sè e sè continua a darsi della stupida testa di cazzo. “Sarà l’aria condizionata”. L’agente pare perplesso. “A motore spento? A me sembra che sia proprio la cisterna che perde. Vede, arriva da questo tubo in plastica. Cosa trasporta?” “Acqua minerale… scherzo, ovviamente. Acqua a cianuro”.

L’agente cambia espressione. “Lei mi vuole dire che l’acqua che esce e la pozza qui sotto, sono acque contaminate di cianuro?” “Sì, beh, ma in fondo non è molto. Adesso chiudo il rubinetto e sistemo tutto”.

Il poliziotto ora è visibilmente incazzato. “Non è acqua minerale e nemmeno acqua e menta! Stiamo parlando di acqua e cianuro. Cazzo si dia una mossa a chiudere quel rubinetto!”

Il Lazzarato passa di corsa a lato dell’agente lasciando una scia di alcool da far invidia ad un vagabondo. I due poliziotti si osservano, mentre Romeo, scorreggiando sonoramente, cerca in qualche modo di abbassarsi sotto la cisterna. Sembra un panda che prova ad entrare in una cuccia per cani. Un minuto più tardi l’uomo riemerge con un sorriso ebete stampato in faccia. “Bene….tutto a posto. Grazie ancora. Adesso devo proprio ripartire perché sono in ritardo”.

“Lei non va proprio da nessuna parte. Intanto ci dica da dove è partito”. Romeo sente l’odore della merda che comincia a salire. “Da Agna” risponde sotto voce. “Quindi è da Agna che lei semina cianuro!” “No, beh. Non proprio da Agna”.

Il poliziotto comincia a fissarlo con sguardo indagatore. “Come fa a sapere che non è da Agna che il camion perde?” Adesso il livello della merda è decisamente più alto. Diciamo ad altezza bocca. “Non lo so, dicevo così, tanto per dire”. “E io, così tanto per dire, dico che lei mi da l’impressione di uno che ha bevuto qualche bicchiere di troppo questa sera”. Merda ad altezza naso. Comincia l’apnea.

“Forse un paio di amari, non di più”. “Collega, prendi l’etilometro che facciamo una prova. Poi chiama quelli dell’Arpav, che voglio capire da dove questo stordito ha cominciato a pisciare cianuro”.

La faccenda si fa calda. Adesso Romeo sta direttamente nuotando a rana in un oceano di merda in tempesta. Disperato e consumato dall’alcool, il Lazzarato prova una punizione alla Del Piero. Mette mano al portafogli e prende cento euro. Quindi, con l’espressione più seria che gli riesce, un misto fra la rana Kermitt del “Muppets Show” e Totò, li tende verso i due agenti. I poliziotti lo guardano basiti. “Prego?”

“No, dicevo. Amici come prima? Non ho altro in tasca. Lo chiudiamo un occhio?” Punizione di Del Piero, con tiro direttamente in tribuna… L’uomo in divisa sorride. “E come no! Con questa cifra possiamo chiuderli tutti e due. Facciamo così: adesso io ed il mio collega chiudiamo gli occhi, contiamo fino a cinque e quando li riapriamo la vogliamo vedere seduto nel sedile posteriore della nostra auto. La trova una buona soluzione?”

Romeo, con un’aria depressa e recitando sottovoce una bestemmia, abbassa la testa ed in silenzio si accomoda nella volante. L’ingranaggio più piccolo si è fermato. Nello stesso momento Mosè Mosole si trova nel bel mezzo della ormai consueta partita a poker con gli amici del giovedì sera. Non manca un appuntamento nella taverna dell’amico Selmin da un paio d’anni. E’ il sacro momento in cui, fra uomini, si può parlare liberamente di poker, di calcio, di affari, ma soprattutto di figa, meglio se dell’est.

Il suono del cellulare lo coglie proprio nel momento in cui sta calando un tris di assi ed il display del telefono gli indica un numero sconosciuto. Risponde infastidito.

“Signor Mosole? E’ la stazione di Polizia di Rosolina. Abbiamo fermato un suo dipendente, tale Lazzarato Romeo, in evidente stato di ebbrezza. L’etilometro ha rilevato un valore nove volte sopra la norma. Gli abbiamo ritirato la patente e sequestrato il mezzo”. “Brutto cojon. Gli ho sempre detto di non bere quando guida! Io sono una persona seria, un lavoratore. Schifoso ubriacone”.

“C’è un altro problema signor Mosole. Il camion perdeva sostanze contaminate di cianuro ed il Lazzarato ha fornito delle risposte piuttosto inquietanti a questo proposito. Per questo motivo la guardia di finanza sta vedendo nella sua azienda per controllare tutti i registri di carico e scarico. Dovrebbe gentilmente recarsi sul posto e mettersi a disposizione dei colleghi”.

Mosè si sente come un coniglio nel mezzo di una tangenziale. “Pronto? E’ ancora in linea? Mi sente?” “Sì…sì…certo. Parto subito”

“Un’ultima cosa. E’ stato chiamato anche l’Arpav, per fare una serie di rilievi lungo la strada che porta dalla sua azienda fino a Taglio di Pò, dove, mi ero dimenticato di dirle, ci sono già le Fiamme Gialle per un controllo incrociato dei registri. Buona serata”.

Buona serata un paio di coglioni. Quella merda di Romeo lo sta per rovinare. Durante il tragitto dalla casa dell’amico Selmin alla Freccia Padana, Mosè non fa altro che bestemmiare e mandare le peggiori maledizioni esistenti al suo autista. Si avverassero tutte, il Lazzarato dovrebbe vivere almeno trecento anni nel tormento dalle peggiori malattie conosciute dalla medicina moderna. Al suo arrivo davanti ai cancelli della ditta, trova già pronto il comitato di accoglienza. Le facce non sono delle più amichevoli. “Buona sera. Prego accomodatevi. Io non so troppo di registri e carte. Non so bene dove li tenga mia filia”.

“Non si preoccupi” fa l’uomo in divisa “sappiamo noi dove guardare, basta che lei apra gli uffici”. Lazzarato prova la sensazione di essere un Mocio Vileda usato per pulire una merda nel cesso di un Autogrill. “Prego” dice accendendo le luci degli uffici. “Adesso chiamo mia filia (il “gl” proprio non gli viene) che magari vi può aiutare”.

Prende in mano il telefono e compone il numero. Stupito, sente giungere dal suo ufficio il tema di “un posto al sole”, la suoneria del cellulare di Suellen. Deve averlo dimenticato nel mio ufficio. Proprio questa sera che avevo bisogno di lei”.

Mosole apre la porta seguito dai quattro agenti della Guardia di Finanza. Accende la luce ed il cellulare è lì, ma cosa più importante, è lì anche la figlia. Se ne sta in ginocchio nuda sulla sua scrivania, mentre un ragazzotto, con i pantaloni calati fino alle caviglie, la penetra da dietro.

Rimangono tutti senza parole e per un lunghissimo momento il tempo sembra cristallizzarsi. Il ragazzotto, ancora con il membro nel culo della giovane, è il primo a parlare: “Signor Mosole, le posso spiegare tutto”.

Il viso di Mosè cambia una decina di colori, fino ad assestarsi su un porpora cardinalizio: “E cosa c’è da spiegare!” urla. “Te si drio incueare me fioea! Ecco cosa c’è da spiegare!”. “Papà….” “Papà un casso! Porsea, farabutta, proprio sulla mia scrivania. Che disonore! Mio Dio, che figura di merda!”.

I finanzieri sembrano statue di sale sorridenti. “Putana, io sono qui con la Guardia di Finanza e tu ti fai inculare dal figlio del fornaio. Brutta troia. Via, andate via tutti e due. Faremo i conti a casa. E tu”, rivolgendosi al figlio del fornaio “la prossima volta che ti vedo vicino a mia filia ti ficco uno sfilatino nel culo, così poi mi dici se ti piace”.

I due ragazzi svaniscono dall’ufficio come neve al sole. Il ragazzo esce saltellando ancora con i pantaloni alle caviglie ed il batacchio al vento. Mosè, stremato, si lascia cadere su una sedia dell’ufficio e dopo qualche istante di silenzio, indica con la mano l’armadio dove sono custoditi i registri contraffatti. Gli agenti, cercando di sorridere il meno possibile, cominciano il loro lavoro. “Se non vi dispiace, io vado un momento a casa. Ho bisogno di scambiare due parole con mia moglie. La casa è qui sul retro”. “Può andare, ma un agente verrà con lei. C’è un’indagine in corso ed in questi casi esiste il problema di possibili occultamenti di materiale. Sarà molto discreto, non si preoccupi”.

Rassegnato, il Mosole acconsente con un cenno della testa. Un minuto più tardi sta aprendo la porta di casa. Giunto in salotto, accompagnato sempre dall’agente, trova la moglie distesa sul divano, una gamba penzoloni sul pavimento, russa sonoramente. Stringe ancora in mano la bottiglia di Sambuca ed un filo di bava le cola dalla bocca fino ad imbrattarle il colletto della vestaglia. Vestaglia che nel frattempo si è aperta e lascia intravedere che la donna non indossava alcun tipo di biancheria intima, né sopra, né tanto meno, fra le gambe. Il finanziere sgrana gli occhi, Mosole li chiude sospirando.

“Una troia di filia ed una moglie alcolizzata. Ma come è possibile?” mormora. “Ma cosa ho fatto di male?” Si avvicina alla moglie e le rifila due schiaffi, a mano aperta, in grado di stendere un cinghiale. La donna rinviene lentamente, come se invece di due ceffoni, avesse ricevuto due languide carezze. “Ma non eri a giocare a carte?” dice con una voce catarrosa.

“Ecco cosa fate voi quando io vado a giocare a carte! Tu ti attacchi alla bottiglia e tua figlia si attacca al cazzo del figlio del fornaio! Ma in che famiglia di merda mi ritrovo?” Si materializza in quel momento un altro finanziere.
“Signor Mosole, mi scusi, ma deve venire in caserma con noi. Quelli dell’Arpav hanno chiamato. Fra la Monselice Mare e la strada Romea ci sono concentrazioni di cianuro a livelli inverosimili. Deve venire con noi”. In quel momento suona il cellulare di un Mosè tutto ad un tratto invecchiato di almeno vent’anni. Il nome sul display è quello di suo figlio Denis.

“Fatemi almeno rispondere. Pronto? Denis, figlio mio, va tutto bene?
“Ciao papà. Sono alla stazione dei carabinieri di Monselice. Ci hanno fermato e hanno trovato della cocaina nella mia macchina. Ma ti posso spiegare tutto. Non era mia. Era di una puttana di una lap dance che avevo caricato in macchina e…”. Mosè chiude la comunicazione.

“Puttane, drogati, alcolizzate, quel deficiente di Romeo che si fa fermare gonfio di Fernet. Qua va tutto a remengo”.

L’agente, quasi con un moto di umana compassione, accompagna il Mosole verso l’uscita, dove lo attende una macchina con il lampeggiante acceso. Sua moglie, intanto, come se nulla fosse accaduto, si richiude la vestaglia e con un rutto cambia posizione sul divano.

Gli ingranaggi, al collasso, adesso si fermano del tutto ed il sipario cala mestamente a chiudere un’altra nera favola del ricco nordest.