Salto d’ottava
Titolo: Salto d’ottava
Autore: Antonio Paolacci
Editore: Perdisa Pop
PP: 128
Prezzo: 10,00
Cesare Pavese ebbe a scrivere che: “leggendo, ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra, che già viviamo, e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.”
Ebbene, è esattamente ciò che ho pensato durante la lettura di Salto d’Ottava, ottima opera seconda dello scrittore Antonio Paolacci (1974), campano di nascita, ma bolognese d’adozione.
Vi sono infatti autori che hanno la rara capacità e il prezioso talento di narrare storie comuni con straordinaria raffinatezza, riuscendo a “dare un nome” – e questo è ciò che conta – alla nostra esperienza emozionale e alle parole che già risiedono – confuse – nel nostro intimo vissuto. E tra questi c’è sicuramente Antonio Paolacci.
Già con il suo primo romanzo “Flemma”, egli era riuscito a distinguersi per la sua notevole sensibilità narrativa, ma con quest’ultimo lavoro viene confermato tutto il suo talento grazie ad una storia dalla trama sì semplice ed estremamente esile, ma raccontata davvero come dio comanda, con una cifra stilistica calibratissima, caratterizzata da una scrittura intensa e molto lavorata, dove ogni parola viene calcolata e soppesata come se dovesse essere incastonata in un vero e proprio testo poetico.
La trama, si diceva. Tutta la vicenda è incentrata su Met e Matteo, la stessa persona prima e dopo: il primo sedicenne perdigiorno, con indosso le sue All Star bucate e scolorite e una passione irrefrenabile per lo skateboard; il secondo trentaepiùenne produttore cinematografico annoiato dalla vita. Ventiquattr’ore per tutti e due. Il primo ritrova il cadavere di un adolescente in una fabbrica abbandonata, il secondo vive una vita e un’esistenza segnata da quell’evento e “in” quell’evento. E attende.
Entrambe le sue identità però, nonostante il lasso temporale che le divide, vengono magistralmente rapportate allo sguardo di uno stesso, medesimo presente, in uno scenario urbano post-industriale cinico e desolato (il Rottame) dove tutto è degradato, compreso il consumo di una sessualità e di una trasgressione prostituite e mercificate, tutto così lontano dai soliti banali cliché e rappresentativo piuttosto di uno scenario tutto interiore ai personaggi stessi.
E qui sta il grande talento di Paolacci: nel saper scrivere e descrivere un dialogo di coscienza che parte da un luogo rovinoso per introproiettarsi vividamente nella vita di un uomo, come in uno specchio, immergendosi nelle più profonde ed intime identità di questi due personaggi – della stessa persona – facendone risaltare tutto il loro disagio, il loro malessere, il loro spleen contemporaneo nato nel momento in cui Met scopre il cadavere di un suo coetaneo.
Malessere che da quel momento si ispessisce nel corso degli anni e prende forme “altre”, in una sorta, per dirla con l’autore, di dialettica tra mutamento e infinita ripetizione. Sempre uguali invece sono l’indifferenza, la desolazione, lo smarrimento, il nichilismo, l’apatia, il disorientamento e quella che definirei una sorta di “anestesia sociale”.
Ma si badi bene, non appannaggio soltanto dei giovanissimi e degli adolescenti: il Matteo trentaepiùenne infatti, pur uomo dall’apparente successo, risulta avulso e distaccato emotivamente da ogni cosa: non vi è alcuna speranza per lui, così come nessun peso specifico morale e nessun “valore”; diluiti e perduti nell’apatia e nell’alienazione del proprio sguardo interiore.
Paolacci riesce con grande abilità, con precisa lucidità, con fine senso della musicalità linguistica, ad immergersi ed emergere in continuazione fra l’introspezione e la realtà esteriore (facce della stessa medaglia), alternando un ottimo sguardo cinematografico ad una scrittura genuinamente “letteraria”.
Ma d’altronde non è una novità, visto che Antonio Paolacci riesce a fare buona letteratura perfino rispondendo alle domande delle interviste.