Savana Padana: il primo capitolo

Pubblichiamo in anteprima il primo capitolo di Savana Padana per gentile concessione di TEA – Tascabili degli Editori Associati S.p.A. in accordo con l’autore e PNLA & Associati Srl/Piergiorgio Nicolazzini
Literary Agency.

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Ancora pochi minuti e sarebbero finalmente giunti a destinazione. Per strada tutto liscio. Né polizia, né carabinieri. Berto guidava il furgone con una mano, mentre nell’altra stringeva un pezzo di carta stropicciata sul quale si era frettolosamente annotato la strada da seguire. Grondava di sudore dalla testa alla pianta dei piedi e non vedeva l’ora che quella storia finisse al più presto.

Scarpe da ginnastica, pantaloncini corti, una camicia di lino aperta sul petto villoso e al collo una catena d’oro con un grosso crocifisso. Uomo di poche parole e tante bestemmie, al punto di essere soprannominato «Sacramento», Berto era alto e corpulento, con pochi capelli in testa concentrati sulle tempie e sulla nuca. Li portava lunghi, sempre imbrattati di sudore e di gel per un disgustoso effetto lurido. Quella notte aveva con sé soltanto un marsupio allacciato in vita con dentro tutto il necessario, più un rosario della Madonna di Monte Berico. Perché lui era devoto di quella Madonna là. Di tutte le altre no, ma di quella sì. Quella notte guidava, sbirciava il foglietto, toccava il marsupio. Toccava il marsupio, sbirciava il foglietto, guidava.

Anche Sante, seduto al suo fianco, portava un marsupio. Troppo caldo per usare giubbotti giubbetti e giubbini con tasche, oppure sacche e zainetti da tenere in spalla, perciò il top del top era il marsupio. Infradito ai piedi, pantaloncini, canottiera gialla, Rolex d’oro, anellone d’oro e marsupio. Il minimo. Pratico e tattico. Proprio come si considerava lui. Al bar, i tosi lo chiamavano «il Negro», perché aveva i capelli ricci e il naso largo, ma anche perché portava l’orecchino e parlava sempre ad alta voce. Erano pochi però quelli che potevano permettersi di rivolgersi a lui in questo modo, anche perché lui, i negri, proprio non li poteva vedere. Li considerava scimmie. Punto e basta, senza tante seghe mentali. Figurarsi a chiamarlo così. Era madido di sudore e continuava a tacere pure lui. Zitto. Di solito però lui parlava sempre. Parlava di tutto, ma soprattutto di niente. E fumava, Sante. Tanto. Qualcosa come due pacchetti di sigarette al giorno.

«Quanto manca?» domandò a un certo punto, ponendo fine al lungo silenzio.

A differenza degli altri tosi, lui e Berto parlavano italiano, anche se il dialetto lo sapevano e lo capivano benissimo, figuriamoci.

Berto, muto, continuava a guidare assorto, concentrato sulla strada davanti a sé e sul foglietto spiegazzato che ora aveva posato tra il cruscotto e il volante. I due viaggiavano a bordo di un furgone dei gelati Algida, uno di quelli grandi e squadrati che si vedono girare d’estate. In quella notte di metà giugno non c’era un alito di vento e faceva caldo, molto caldo, nonostante il sole fosse a nanna da più di sei ore e i finestrini del furgone aperti del tutto.

«Allora? Ti ho chiesto quanto manca. È da mezz’ora che giriamo. Sei sicuro di avere capito dov’è?»

Berto non lo ascoltava e continuava invece a maledire tra sé quell’afa infernale. Il cielo era di quelli che preannunciano qualcosa di catastrofico, l’aria stagnante creava un’atmosfera di calma apparente tipica dell’occhio del ciclone, prima che l’uragano si scagli su uomini e cose con tutta la sua forza distruttrice.

«Quanto cazzo manca?» ripeté Sante.
«Fa caldo», disse Berto con il tono di: Non rompere i coglioni! Subito dopo si passò una mano tra i capelli e fece ritorno ai suoi pensieri, accennando un rapido segno della croce.

«Appunto perché fa caldo. Si può sapere, più o meno, dove siamo? Sai com’è: non vorrei morire di caldo a bordo di un camion frigorifero.»

Berto, di nuovo muto.

Erano ormai quasi giunti all’incrocio dove avrebbero dovuto svoltare in direzione di Pionca, paese disperso tra le campagne umide e piatte del Graticolato Romano. Berto guardò ancora una volta il foglietto sul cruscotto, poi mise la freccia e girò a destra, prendendo una strada bianca tra due alte muraglie di granturco. Sante mise la testa fuori del finestrino per prendere una boccata d’aria, ma subito ebbe l’impressione di essere soffocato dall’afa adesiva, perciò tornò dentro e sbuffò un’altra volta. Guardò fuori il cielo immobile, e con la speranza che giungesse un temporale, pensò che ci stava bene una cicca, allora aprì il suo marsupio e prese pacchetto e accendino. Si asciugò il sudore dal viso con un volantino pubblicitario dei gelati Magnum e fece per accendersi una Marlboro rossa.

«Non ci provare neanche, negro!» disse Berto tornando subito in sé.
«Che?» ribatté Sante.
«Metti via quella sigaretta, cazzo, lo sai benissimo che qui dentro non si fuma», disse Berto mentre continuava ad avanzare sul lungo sterrato impolverato. Teneva i fari bassi e procedeva piano per non fare troppo rumore e non far notare a nessuno il loro passaggio, visto che non pioveva da più di un mese e sarebbe bastato uno starnuto per alzare un polverone su un raggio di tre chilometri.
«Certo che sei un tipo strano tu, eh? Cioè, dico: viaggiamo con un cadavere nel vano frigo e ti dà fastidio se fumo una sigaretta?»
«Vuoi che te lo ripeta? Lunedì con questo camion ci devo lavorare, capito? E se quando vado a fare il carico dei gelati il capo sente che ci ho fumato dentro, mi rompe il cazzo. Quanto al cadavere, tra poco non sarà più un problema.»
«Ma che rompicoglioni!» disse Sante mettendo via le sigarette.
«Tra due minuti siamo lì», disse Berto. «Ormai dovremmo esserci, adesso giro a destra e poi avanti ancora per altri trecento metri fino alla grande quercia. Una volta scesi, puoi fumarti anche una piantagione di granturco, ma dentro il camion comando io.»

Ciò detto imboccò una stradina laterale ancora più stretta e polverosa di quelle precedenti.

«Cazzo!» aggiunse bestemmiando un attimo dopo come per chiudere definitivamente la questione. Berto bestemmiava per ogni cosa e talvolta, ma di rado, perfino per offendere Dio.
«Ci siamo», disse poco dopo. Giunse davanti a un casolare, rallentò, parcheggiò sull’aia, spense i fari e si asciugò la fronte. Finalmente erano arrivati.

Mano al marsupio, i due scesero dal furgone. Prima Sante, con una cicca in bocca pronta per essere accesa, poi Berto, bofonchiando qualche porco senza alcun motivo apparente. Posando i piedi a terra sollevarono una nuvolaglia di polvere grigia che li avvolse fino al collo e Sante dovette soffocare uno starnuto. Il silenzio angosciante della campagna attorno a loro metteva quasi paura. Una foschia asfissiante si stava lentamente alzando dai fossi vicini mentre si sentiva l’eco di qualche gallo che chicchirichiva chissà dove. Lontano, il barbaglio di qualche lampo sulle montagne. Ma la pioggia sembrava un sogno impossibile.

Berto si schiarì la voce nel buio e poi disse forte: «Nereo, siamo noialtri. Siamo arrivati».

La cascina di campagna dove erano giunti era tetra e sembrava deserta. Intorno era buio fitto e si distinguevano a malapena tre piccoli fabbricati. Presumibilmente la casa, il porcile, il pollaio. Accanto alla casa c’era un’enorme quercia secolare. Altro che aria buona di campagna, tutt’attorno c’era un odore acre e persistente di merda, letame e urina. Tutto questo, assieme all’afa, mise a Sante voglia di vomitare anche la prima comunione. Stando vicini l’uno all’altro si potevano intravedere reciprocamente.

Sempre tenendo una mano sul marsupio aperto Berto fece lentamente un passo in avanti, verso l’uscio della casa, e ripeté: «Nereo, sono Berto. Ci manda Ettore, il Bestia».

A quel punto si aprì lentamente una porta del porcile da dove balenò una luce fioca. Un’ombra uscì lentamente e richiuse subito la porta cigolante dietro di sé, nel buio totale.

«Nereo, sei tu?»

Ma nessuno rispose. Lontano, tra i campi, il guaito di un cane. Sante gettò la cicca a terra e la schiacciò con un piede, poi fece un rapido cenno a Berto. In quel momento estrassero entrambi le pistole dal marsupio e, sicuri del fatto loro, le puntarono decisi contro quella sagoma nell’oscurità.

Ma forse è meglio andare con ordine, perché tutta questa storia ebbe inizio da un’altra parte e in un altro momento.
Precisamente a San Vito, qualche settimana prima.