Sean Connery, l’ultimo degli immortali. L’omaggio di Marco Azzalini e di tutta la crew di Sugarpulp a un gigante della cultura pop.
La perdita di Sean Connery è la perdita di tante cose insieme e di una parte significante di un’epoca. Attore fra i più grandi in assoluto, gli si farebbe torto a incentrare il suo ricordo solo sulla pur magistrale interpretazione, fattasi – per certi versi vien da dire purtroppo – addirittura incarnazione di James Bond.
Sono spesso mitologie equivoche, soprattutto ma non solo per chi ha la fortuna di divenirne, talora suo malgrado, protagonista. C’è, nella vicenda di Connery, qualcosa che ricorda in certo modo quella di Simeon, scrittore immenso sotto tutti i punti di vista e troppo spesso ricordato principalmente se non solo per le inchieste di Jules Maigret – cosa di cui lui stesso si doleva, non senza lasciar trasparire un fondo di consapevole amarezza – quando invece la sua produzione presentava, a considerarla nella dovuta, lucida prospettiva, una ricchezza e un valore che spaziavano in orizzonti che andavano ben oltre i pur già vasti spazi dei Maigret.
“Mi chiamo Bond, James Bond”
Così, un po’ similmente, Sean Connery non solo era stato Bond ma pareva condannato a rimanerlo in una dimensione sospesa e intoccabile, dogmatica e indiscutibile, in una sorta di ingenerosa gara con se stesso, da troppi giudicata, con diffusa superficialità e la consueta dozzinale stupidità, programmaticamente perdente.
In realtà Sean Connery era certamente stato un eccellente Bond, anche a prescindere dall’aderenza o meno al personaggio di Fleming, punto sul quale si potrebbe e forse dovrebbe discutere a lungo.
Ma se per un verso non può sostenersi essere stato l’unico Bond eccellente – Moore e Brosnan per ragioni diverse e in momenti diversi non gli furono, se si guardassero le cose con obiettività, da meno – né, a ben guardare, il meno scontato o il più profondo – si pensi alla non facile e in parte riuscita scommessa, introspettiva ancor prima che estetica, di Craig – per altro verso onestamente andrebbe riconosciuto che il miglior Connery lo si ritrova al di fuori della saga 007.
Sean Connery oltre il mito di 007
Basterebbe citare quattro esempi per avere un’idea della statura del personaggio: lo scrittore di Scoprendo Forrester, il Marco Ramius di Caccia a ottobre rosso, il Jimmy Malone de Gli intoccabili, e il Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez di Highlander, dove non a caso Mulcahy gli riservò un ruolo per certi versi non lontano da quello di Alec Guinness in Guerre stellari, dove la figura non è costantemente al centro della scena ma pervade la storia, e il ruolo, quindi, si svela ulteriormente delicato e fondamentale.
A voler stringere le maglie, basterebbero però forse già i due ruoli di Forrester e Ramius a dare l’idea dello spessore e delle capacità interpretative di Connery, della sua versatilità e attitudine ad essere attore nel senso più genuino e rigoroso del termine, ridimensionando di molto la pur fondamentale esperienza Bond.
Ma poi Connery non era solo un grande attore, ma anche uomo di passioni solide e innato stile: e il suo impegno per le – sacrosante – ragioni della Scozia, insieme ad altri impegni portati avanti nel corso di una lunga ed elegante esistenza hanno ulteriormente confermato la qualità personale di un uomo che è divenuto un emblema di quella sostanza che è anche forma e di quella forma che arricchisce di un ingrediente fondamentale ogni sostanza.
Mancherà moltissimo in questo tempo confuso e cialtrone, ossessivo e superficiale, isterico e dozzinale dove tutto viene affrontato male, pensato malissimo e detto peggio e dove ogni ruolo sembra non trovare, neppure sulla scena della vita, interpreti dotati della retta solidità e della fascinosa congruenza di Connery. Che anche per questo si candida, oltre a tutto quello che ha dato, davvero a rimanere, ironia della sorte, l’ultimo degli immortali.