The Shape of Water è il capolavoro di Guillermo del Toro. La recensione di Matteo Strukul direttamente dalla 74esima Mostra del Cinema di Venezia.

Con The Shape of Water Guillermo del Toro concepisce un’opera cinematografica straordinaria: potente, icastica, magnificamente scritta. Si tratta molto probabilmente del suo miglior film con buona pace di tutti i suoi detrattori che ravvisano scivoloni ogniqualvolta egli provi a “fare l’autore”.

Frasi di questo tipo uccidono il grande cinema, quello al quale appartiene questa stupenda fiaba, visivamente formidabile, in grado di catturare gli occhi dello spettatore e di regalare emozioni intense e profonde.

C’è in The Shape of Water un’incredibile magia, per mezzo della quale un archetipo come La bella e la bestia viene riletto in una chiave profondamente originale, attraverso un uso magistrale della commistione di generi: il musical, la commedia, la spy story, il thriller, il fantasy.

E in questa miscela esplode la cifra artistica di un autore – regista e sceneggiatore – fra i più originali degli anni Duemila.

Protagonista del film è Eliza, interpretata in modo strepitoso da Sally Hawkins, giovane donna muta che lavora in un laboratorio scientifico di Baltimora dove gli americani combattono la guerra fredda. Impiegata come donna delle pulizie, Eliza è legata da profonda amicizia a Zelda (bravissima Octavia Spencer), collega afroamericana che lotta per i propri diritti come donna e moglie, e Giles (Richard Jenkins in pieno stato di grazia recitativo), artista tanto intelligente quanto sensibile ma discriminato sul lavoro per la propria omosessualità.

Un giorno, Eliza scopre che in una sala segreta del laboratorio, la sicurezza ha imprigionato una creatura anfibia di grande intelligenza, al solo scopo di studiarne le caratteristiche, così da poterla utilizzare come possibile arma contro i russi.

Di nascosto, Eliza s’introduce nel luogo in cui è tenuta la creatura e, giorno dopo giorno, stringe con quest’ultima una tenera amicizia. Condannata al silenzio e alla solitudine, la ragazza si scopre infine innamorata. Ma il suo sentimento, ricambiato, dovrà presto fare i conti con una gerarchia ostile, incarnata dal dispotico Strickland, (uno straordinario Michael Shannon).

Con queste premesse, ne esce un capolavoro che è puro Guillermo del Toro style, un film che mescola l’incredibile forza visiva (vi ricordate Il Labirinto del Fauno?) con una sublime leggerezza narrativa, intesa come perfetta armonia di poesia e emozione.

Certo, c’è la denuncia dell’America più razzista e retriva, la Guerra Fredda e la corsa alle stelle, e agli armamenti, contro i russi, il futuro come ossessione, ancor più che come promessa, in reazione al post seconda guerra mondiale ma tutto questo alla fine scolora di fronte a una gigantesca storia d’amore, raccontata con la grazia e la profondità delle commedie di Shakespeare e imbevuta delle ombre cupe di un capolavoro cinematografico come Brazil di Terry Gilliam.

Del Toro se ne esce così con il film più bello di questa 74ma edizione della Mostra del Cinema, almeno fino ad ora. Credo sinceramente che meriti di arrivare lontano, a prescindere da come andrà a finire.