Si sente? Tre discorsi su Auschwitz di Paolo Nori è un utile strumento per tentare di afferrare la pentola bollente della nostra contemporaneità.
Titolo: Si sente? Tre discorsi su Auschwitz
Autore: Paolo Nori
Editore: Marcos y Marcos
PP: 181
Prezzo: 12,00 euro
Le commemorazioni e le ricorrenze sono spesso ammantate di una retorica stantia, incapace di gettare davvero ponti tra il passato e l’umanità odierna che dovrebbe accoglierlo. L’intento che Paolo Nori si prefigge con Si sente? Tre discorsi su Auschwitz è cercare di cambiare questa tendenza, provando a donare un nuovo senso al nostro rapporto con la memoria dell’Olocausto e con temi ad esso affini.
Il momento è propizio, ci dice Nori: la fine del Novecento, la così tanto acclamata morte delle ideologie, può esser vista come un’occasione per riconsiderare tutto il nostro sapere, cercando risposte non basate su formule già impostate dagli altri (la storia, la fede o concezioni politiche totalizzanti) ma su una costante ricerca personale. È difficile, è faticoso, ma ci si può provare.
Pur potendosi prestare molto bene a un certo teatro di narrazione, quelli contenuti in questo volume non sono monologhi ma veri e propri discorsi tenuti da Nori nel corso degli anni in occasione della manifestazione Un treno per Auschwitz organizzata dalla Fondazione Fossoli.
Esattamente il contrario è dedicato alla questione della razza, ma non si esaurisce in quest’unico tema, perché lo stile di Nori si fonda sulla divagazione come metodo di ricerca: la sua prosa è ricca di deviazioni, metafore, esempi che richiamano altri aneddoti in un incastro continuo di rimandi e incisi.
I suoi scritti sono zeppi di citazioni da libri di altri autori o da opere dello stesso Nori, in quello strano tipo di autofiction condita di comicità ed ironia che caratterizza anche i romanzi di questo scrittore.
L’accumulazione di immagini, repertori e spunti diversi dà conto della ricchezza della fantasia dell’autore, ma anche di quella del mondo, che ci spinge sempre verso nuovi approdi da esplorare.
La scelta di impostare in questo modo la dissertazione è funzionale all’obiettivo principale per cui Nori scrive: come dice lui stesso, citando Malerba, la scrittura serve a capire cosa si pensa, e questo meccanismo è accentuato dalla forma orale, che pone le riflessioni dell’autore in una situazione a metà tra il confronto pubblico (si rivolge direttamente agli uditori, chiede conferme, cerca complicità) e la seduta psicanalitica, in cui l’espressione verbale aiuta l’emergere dei propri pensieri, la loro elaborazione e la loro analisi critica; la condivisione come prassi di riflessione e accrescimento personale.
Nel primo discorso Nori insinua il dubbio che la ricorrenza del Giorno della Memoria sia l’ennesima prova dell’automatismo che regola il nostro senso morale, dettato non tanto da convinzioni profonde ma da un adeguamento inconsapevole alle tendenze storiche.
Oggi è pacifico considerare il nazismo come male assoluto ma, secondo Nori, ben pochi hanno maturato questa convinzione in autonomia. Lo si dà per scontato perchè siamo nati in un’epoca che ha assunto l’antifascismo come fondamento, rendendolo per i più un feticcio privo di consistenza.
Ripercorrendo la storia dell’eugenetica (la cui applicazione pratica negli USA è addirittura precedente a quella tedesca) Nori dimostra, ad esempio, quanto le idee portate avanti sistematicamente dal nazismo fossero diffuse in tutto il mondo, sostenute anche da molti personaggi che oggi consideriamo eroi civili: essi non vengono citati per additarli e criminalizzarli, ma per far capire che il conformismo è la media, che non è affatto comune mettersi contro il proprio tempo e staccarsi da ciò che sembra “naturale” in un determinato momento storico; contestualizzare non significa minimizzare, ma permette invece di capire meglio i fenomeni e come essi siano potuti succedere.
Il tema che solleva Nori, quindi, non è tanto l’orrore del nazismo, che ovviamente non è messo in discussione, ma l’assenza di senso critico, di individualità. L’accettazione dello spirito del tempo dettato dal dare per scontate le verità del nostro secolo è un atteggiamento pericoloso perchè determina un insieme di individui manipolabili, incapaci di relativizzare i valori che si trovano a maneggiare, convinti che l’ideologia dominante sia la sola lettura possibile dei fatti, arrivando a non percepirla più come interpretazione ma facendola coincidere con una verità assoluta ed immutabile.
Leggendo l’elogio che Nori fa nel terzo discorso (Birkenau) del “sentirsi deficiente” non può non venire in mente lo straniamento brechtiano (e di straniamento in effetti parla esplicitamente lo stesso Nori, in quelli che sono alcuni dei passaggi più belli del libro) che consiste nel vedere una cosa consueta con occhi diversi, come se la guardassimo per la prima volta, provando stupore (e sentendoci perciò un po’ inadeguati, non pronti, messi in discussione, deficienti appunto).
L’abitudine spegne lo sguardo, crea assuefazione; così persino una questione immensa come l’Olocausto viene data per scontata, smette di interrogarci. L’antidoto a questa pericolosa pigrizia mentale è sforzarsi di rimanere disponibili alla sorpresa, che in definitiva è il vero innesco della conoscenza.
Paradossalmente, allora, i negazionisti possono assumere un ruolo positivo in questa dinamica, perché ci costringono, per confutarli, ad approfondire sul serio le nostre conoscenze in materia, a parlarne con vera cognizione di causa, a riappropriarcene.
Nori si avvicina quindi all’Olocausto come se lo osservasse per la prima volta, senza retaggi di sorta, sfuggendo alla retorica. Va da sé, anche l’assunzione della semplicità e della pacatezza nell’enunciare le proprie opinioni è una forma di retorica, non esente tra l’altro da momenti d’ingenuità kitsch: la rivendicazione di non guardare la tv e non leggere i giornali per non farsi imporre da altri come pensare, la purezza dei bambini come unica salvezza o il finale di Noi la farem vendetta? (il secondo intervento, dedicato ai fatti del 7 luglio 1960, quelli cantati in Per i morti di Reggio Emilia) con un “ci possono ammazzare, ma non ci possono fare del male” che sa un po’ troppo di frase fatta.
La stessa obiezione, d’altronde, la si può fare anche per la questione delle ideologie: sostenere che non ci sono più ideologie è un’ideologia; il linguaggio è una costruzione, un artificio cui non si può sfuggire, ma almeno l’approccio scelto da Nori ha il pregio di essere aperto, non dogmatico, disponibile ad esser smontato e ricostruito con materiali ed idee nuove.
In questo senso l’accumulazione, carattere distintivo della prosa di questo autore, ha valore inclusivo: il risultato, la tesi che si va sostenendo non è data a priori e dal nulla, ma è la somma di tutti quei tasselli che Nori ha affastellato, è il frutto delle varie esperienze che lo scrittore condivide pubblicamente con chi lo ascolta o lo legge.
Il rischio di un approccio simile è di essere inconcludente, e a ben vedere tutti e tre i discorsi partono da un tema e finiscono parlando d’altro. Ma è un rischio calcolato, voluto, e se si accetta questo modo di procedere senza cercare il rigore saggistico, si troveranno sicuramente interessanti, oltre che paicevoli alla lettura, le argomentazioni di Nori.
In alcuni punti, però, è davvero esagerato il suo esondare, perdersi, insistere su costruzioni tipiche del parlato; alla lunga l’understatement, il buttarla sempre sul personale, il ritirarsi attentamente ponderato un momento prima di essere seri risulta stucchevole. Il più riuscito dei tre discorsi è senza dubbio il primo, in cui c’è il giusto equilibrio tra forma e libertà espressiva.
Le pagine più dolorose e più dirette allo stomaco del lettore (con tutti i rischi che ciò comporta) sono quelle dedicate ai Centri di permanenza temporanea (oggi Centri di identificazione ed espulsione), luoghi dove gli immigrati vivono condizioni di marginalità, degrado e costrizione insopportabili: ogni paragone è improprio, e Nori sfugge al sensazionalismo dell’equipararli ai campi di concentramento, ma fa riflettere sul fatto che oggi dei Cpt, come avvenne allora per i lager, non se ne parla, si finge che non ci siano, ed anche i più consapevoli preferiscono girare la testa dall’altra parte; affrontare i campi di concentramento diventa così non un modo per essere testimoni di un passato da onorare in una teca, ma uno strumento che ci permetta di capire meglio cosa ci succede attorno, per maneggiare il presente, per avere, usando le parole dell’autore, dei manici con cui afferrare la pentola bollente della nostra contemporaneità.