Smetto quando voglio – Masterclass, la recensione di Matteo Marchisio del seguito del film rivelazione del 2014 di Sydney Sibilia.

Qui si parla di un bel film. Ma uno davvero bello, di quelli che si rivedono sempre volentieri. Specialmente perché si tratta di un film italiano. Puntare sempre l’attenzione su quanto nel nostro paese ci sia una costante alternanza di schifezze e piccoli gioielli può sembrare un gesto dal retrogusto di già sentito, ma tant’è.

Smetto quando voglio – Masterclass è il seguito del primo film, intitolato Smetto quando voglio uscito nel 2014. La regia è sempre di Sydney Sibilia, che già con il capitolo iniziale di questa “saga” dedicata alla banda dei ricercatori aveva conquistato premi come “miglior film dell’anno”, “miglior regista esordiente”, e altri miglior che non elenchiamo, ma sono tanti.

L’orientamento generale della pellicola è quello del genere poliziesco\gangster movie con forti note di commedia, il tutto costantemente pervaso da critiche varie allo status quo attuale del mondo del lavoro, dell’università, dell’itaglietta da quattro soldi in cui tutti noi viviamo e interagiamo.

Un po’ Guy Ritchie quindi come film, ma con un’estetica con colori allucinati e svarioni parascientifici alla CSI, come per il primo film. In questo secondo capitolo si valicano anche i confini nazionali, visto che la banda ha bisogno di altre eccellenze italiane, come molte finite all’estero per cercare fortuna o semplicemente uno stipendio.

Gli ingredienti base sono il mix di ironia, azione costante, con colori pulp e dialoghi esagerati da commedia napoletana. I protagonisti sono quasi tutti quelli del primo film, ovvero un gruppo di ricercatori universitari obbligati dal menefreghismo generale verso progresso e cultura ad arrabattarsi per guadagnare di che vivere, uniti nella Banda dei ricercatori dedita alla produzione e spaccio di smart drugs.

In più si aggiungono, per la banda, tre nuovi specialisti che coprono le abilità necessarie per raggiugere il nuovo l’obbiettivo, relativamente laureati in: diritto canonico, medicina, ingegneria. 

Sul fronte degli antagonisti e aiutanti degli antagonisti arrivano tre figure, ovvero la poliziotta giovane e irruenta, il suo capo con i piedi per terra e il super cattivo reso tale da un esperimento di laboratorio fallito, i cui tentacoli sono tanto viscidi e potenti da aver in realtà già colpito nel primo film senza che nessuno (o forse solo uno?) se ne accorgesse.

Qualche nome? Edoardo Leo il capobanda\neurobiologo, Paolo Calabresi il ricercatore d’arte antica, Libero de Rienzo matematico affiliato alla mala zingara, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti antropologo e sfasciacarrozze ultracoatto, Giampaolo Morelli ingegnere e mercante l’armi, ecc…

Smetto quando voglio: Masterclass punta l’attenzione su una nuova avventura della Banda dei ricercatori dopo il loro passaggio al “lato oscuro” riuscendo a trovare la chiave di volta per costruire un edificio di gag intuibili, divertenti e sempre intelligenti. Ogni personaggio della banda ha accettato e abbracciato la propria svolta malavitosa e di conseguenza possiede due menù di possibilità per ogni reazione perché è un letterato esperto o un ricercatore di fama mondiale, ma anche uno spacciatore di borgata che ha imparato a sue spese quanto il mondo sia duro e voglia fare davvero di tutto per non essere ancora un volta un lavapiatti nel retrobottega di un takeaway cinese.

Recita un adagio “A ogni problema complesso, corrisponde una soluzione semplice. Che è sempre sbagliata”. Il film sembra usare questa massima come perno per far precipitare i protagonisti verso una sorta di redenzione finale e lieto fine, solo per dimostrare quanto nella realtà, imboccate certe strade non si potrà mai davvero tornare indietro.

Aspettiamo con ansia il terzo capitolo di cui fa capolino un minuscolo trailer a fine proiezione in cui si intravede un super cattivo finale al centro di una minaccia globale. Che la Banda dei ricercatori si ritroverà suo malgrado nei panni degli Avegers de noaltri?