TAR, la recensione di Silvia Gorgi del film di Todd Field con Cate Blanchett in concorso alla 79a Mostra del Cinema di Venezia
Una lunga intervista al New Yorker in cui la direttrice d’orchestra, pluripremiata, e leggendaria, Lydia Tár, pioniera nell’affermarsi alla guida di una iconica filarmonica, conduce lo spettatore in un excursus lungo la storia per ricordare quelle donne che, prima di lei, hanno saputo lasciare traccia di sé, o hanno cercato di farlo, in un campo, come quello dell’orchestra classica, in cui le donne si ritrovano sempre a dover dimostrare le proprie competenze, relegate in ruoli in disparte, difficilmente al centro, e con il giusto riconoscimento dei propri meriti in un ambiente tendenzialmente maschilista.
E subito la bravura granitica di Cate Blanchett arriva, come un treno in faccia, allo spettatore. La sua Lydia rispecchia l’idea di una donna che ha ottenuto risultati ineguagliabili, è preparata, in grado di gestire pressioni enormi, di usare la diplomazia per non dar fastidio a ruoli di potere, di trasmettere la sua passione e la sua idea di musica e d’arte al di là di ogni stereotipo, e di false convinzioni, e pure in pieno controllo della sua identità, della sua dimensione familiare, legata a una donna e con una figlia, e come personaggio pubblico attenta a gestire i media, pronti a cogliere ogni aspetto utile a incrinare la sua immagine, la sua forza.
Tutto si sgretola
Poi però la tutta d’un pezzo Lydia, under control, il suo mondo così elegante e artistico, in cui tutto si regge, grazie anche alle donne che le stanno accanto, alla sua compagna, alla sua assistente, alla figlia, viene messo alla prova da alcune sue scelte, mostrando alcune crepe dietro alla facciata, e pian piano si sgretola. Lei però no. Le scelte che l’hanno condotta al successo, che le hanno fatto acquisire potere, mostrano le corde, e una fama raggiunta grazie al talento, ma anche all’abilità di muoversi in un sistema, di tessere relazioni giuste, e, a volte, di incorrere in quelle sbagliate, la porta dall’ascesa alla caduta.
Quel suo approccio quasi cinico, distaccato, controllato, forgiato negli anni, quel suo essere sempre a fuoco, sull’obiettivo, in grado di rendere al meglio Mahler in scena, o Bach, si sfalda proprio in relazione a scelte che finiscono per torcersi contro di lei e divenire un vortice in cui viene risucchiata. La sua vita deraglia, fra cose non dette, relazioni sbagliate, ferite d’amore inferte e ricevute, invidie, travolgendo la sua famiglia, la sua compagna, anche se l’arte sopravvive sempre, insieme alle sue idee, non convenzionali e non irreggimentate, e a quel fuoco che non l’abbandona.
Sul palco restano comunque loro: Bach, Mozart e Beethoven, la loro musica, il loro talento, la loro dedizione, al di là della loro scelte, del loro essere persone come tutti, come Lydia, una Cate Blanchett, in una prova maestra di recitazione. Meriterebbe la Coppa Volpi assoluta, senza distinzione fra femminile e maschile, la sua direttrice d’orchestra, personaggio di fantasia, ispirato forse alla figura di Eva Brunelli, la prima donna a dirigere la Filarmonica di Berlino nel 1923.
Lydia è una figura a tutto tondo, con mille sfaccettature, con pro e contro, stronza e talentuosa, ispirata e cinica, arrivista e politica, che parla tedesco, inglese, francese – con accenti perfetti da parte di Cate per rendere al meglio il suo personaggio – e gira il mondo con la sua arte.
Un’interpretazione magistrale
Del resto Blanchett, già Coppa Volpi con Io non sono qui di Todd Hayes, nella sua carriera è, un po’ come la sua direttrice d’orchestra, una che ha vinto tutto, cinque candidature all’Oscar, con le statuette aggiudicate per The Aviator (2004) e Blue Jasmine (2013), e, in questa pellicola è insieme a un cast super top, con Nina Hoss, Noémie Merlant, Sophie Kauer, Mark Strong. Bravissima, fra gli altri, la violoncellista autentica, qui all’esordio come attrice, ottimamente diretta, Sophie Kauer, londinese, selezionata tra centinaia di colleghe musiciste.
La bellezza del film e dell’interpretazione di Blanchett si unisce alla bellezza di veder diretta un’orchestra come la Dresden Philarmonie, che qui viene interpreta i Berliner Philarmoniker, alla musica classica, a Berlino e a Dresda. Si vede che a dirigere al meglio Cate, come Lydia, con quella sua voce così profonda e importante, in grado di caratterizzare al meglio la direttrice d’orchestra, c’è un altro attore come Tood Field, che, avrebbe, forse, potuto risparmiare allo spettatore la piccola tortura dei titoli di testa (vedrete).
Altra piccola riflessione è legata alla durata: delle due ore e quaranta, una mezz’ora poteva anche forse essere ridotta, visto che una serie di sotto trame utili a farci conoscere il carattere e tutte le sfumature di Lydia, restano un po’ appese in aria.
TÁR, dopo la tappa a Venezia 79, in concorso nella Selezione Ufficiale della Mostra, nel 2023 arriverà nei cinema italiani con Universal Pictures, e il regista Todd Field, qui torna dietro la macchina da presa a 6 anni da Little Children, ed è al suo quarto lungometraggio nell’arco di 21 anni con tre candidature all’Oscar, due ricevute per il suo dramma d’esordio In the Bedroom del 2001 (Miglior film e Miglior sceneggiatura non originale) e una per la Migliore sceneggiatura non originale di Little Children. (S.G.)