The Killer, la recensione di Silvia Gorgi del film di David Fincher in concorso all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

A David Fincher succede la stessa cosa che capita al suo protagonista: un killer che sbaglia il colpo. Un regista che sbaglia l’obiettivo. Nel caso della pellicola dovrebbe essere rappresentare il deragliamento dell’anima del suo protagonista. O meglio, questo è ciò che dichiara il suo autore, questo l’intento della sua opera. Ma questo deragliamento dell’anima non va così a segno, anzi, e finisce per trasformare quell’intento in un fallimento, e in un film che non ci racconta niente di nuovo sotto questo cielo.

Solo la storia di un killer che, cerca di controllare ogni singolo nervo, emozione, sentimento per portare a termine il suo compito, e quando non succede, come dopo i primi minuti del film, finisce, più o meno, per vendicarsi a caso contro le relative ritorsioni che inevitabilmente accompagnano il fallimento dell’obiettivo.

Certo all’inizio lo sguardo algido del regista e del suo attore protagonista potevano condurre lo spettatore a ritrovare gli stilemi del cinema di Fincher: chirurgico, psicologico, introspettivo e tagliente; così ha saputo essere in molti dei suoi lavori. Ma non è questo il caso meglio riuscito nella sua filmografia.

Un film di cui non sentivamo il bisogno

C’era davvero bisogno di un ennesimo film su un killer e sui suoi possibili rigurgiti di coscienza? Mah! Diciamo che in questa edizione di Venezia – anche questo film è in concorso – i cineasti statunitensi non è che proprio abbiamo portato opere altissime, anzi, e, in questo caso, in questo prodotto destinato al pubblico di Netflix, anche Fincher non ha tenuto un livello che, per un autore come lui, ci si poteva aspettare.

Il regista di Seven, di Zodiac, di The Social Network, di Gone-L’Amore bugiardo, di Fight Club, ossessionato dall’idea di analizzare la psiche di personalità ambigue, borderline su cui spesso si sofferma per tracciare dei ritratti d’umanità che sorprendono, qui per raccontare il suo killer s’affida alla fotografia di Erik Messerschimdt.

La voce nella testa del killer – Michael Fassbender, non al suo meglio – accompagna lo spettatore nella routine maniacale quotidiana di chi per professione uccide la gente, e, come fossimo in un fight club, le regole che si è dato il suo protagonista vengono ripetute come un mantra, come una preghiera, cui attenersi, per non sbagliare, per non fallire, per questo: “Attieniti al piano, non improvvisare”.

Nella scena iniziale in cui lo spettatore viene messo a parte di queste regole, mentre il killer dalla finestra osserva nel palazzo davanti il possibile obiettivo, in una dimensione a La finestra sul cortile, entriamo in contatto con questa figura, quest’uomo che concentra tutte le sue energie, i suoi sforzi, sul mirino del fucile, allontanandosi dall’idea di bene e male; ma si sa l’uomo non è una macchina, e l’errore fa emergere quell’umanità che la mente alla fine stenta a controllare, seppure esercizio e determinazione possano spesso essere fondamentali per allontanare emozioni e sentimenti, e definire la realtà solo in un senso matematico.

Un revenge movie un po’ inutile

Nella sceneggiatura di Andrew Kevin Walker ci sono però molti buchi, o situazioni che sembrano inverosimili in questo mondo di killer, visto che, dopo il fallimento dell’incarico da cui parte tutto il racconto, vengono mandati due super killer nella casa di Fassbender per procedere ad eliminarlo e trovavano la sua ragazza che finisce all’ospedale ma è viva. Siamo nel mondo dei super assassini e la lasciano in vita? Really?

E poi al cospetto di questi due – bella la scena d’azione con l’energumeno, il primo dei sicari – la storia è divisa in capitoli – con il secondo, interpretato da Tilda Swinton, sorta di coscienza per Fassbender, arriviamo a punte di intellettualismo.

Insomma una storia che fa acqua da un po’ di parti, o meglio, non lavora bene nella riemersione della coscienza in questo protagonista, freddo, glaciale, che aveva lavorato sulla sua totale spersonalizzazione, e di fatto si trasforma in una sorta di revenge movie, un po’ inutile.