The Whale, la recensione di Silvia Gorgi del film di Darren Aronofsky presentato in concorso alla 79 Mostra del Cinema di Venezia.
È in quel primo piano, primissimo, sugli occhi di Brendan Fraser, carico di disperazione, di struggimento, ma anche alla ricerca di libertà da ogni senso di colpa, che si fonda il nuovo tassello di indagine sul corpo, sulle nevrosi, sulle ossessioni che compie Darren Aronofsky, ritornando al percorso solcato con The Wrestler e Il cigno nero.
Il corpo, una prigione
In questo caso il suo protagonista è prigioniero di un corpo che ha fatto crescere a tal punto da potervi implodere dentro, per espirare delle colpe che ritiene siano state fondanti nella sua vita, nella sua famiglia. Lui è Charlie, un insegnante di inglese, di corsi on line, per tenere i quali si collega al computer tenendo sempre la sua immagine oscurata, poiché Charlie vive nella sua casa, da dove non si muove, in una condizione di obesità al di là di ogni limite, che lo pone a rischio di morte, e finisce per spostarsi con grande fatica solo dal divano del soggiorno al suo letto.
La sua sofferenza per la morte dell’amato, il suo dispiacere per aver fatto, per quell’amore, naufragare il suo matrimonio (sua moglie è interpretata da Samantha Morton), e perdere quasi totalmente il rapporto con la figlia, impertinente, rabbiosa e tormentata come tutti gli adolescenti (Sadie Sink di Stranger Things), è tale che solo infliggendosi la pena-sollievo del cibo, divorato ossessivamente per allontanare il dolore, trova un temporaneo e minimo conforto, anche se, finiti i morsi e il cibo, la sua anima ripiomba nella situazione di sempre, nei soliti tormenti che man mano si fanno sempre più pesanti.
Cerca di alleviare questa sofferenza la sua infermiera, la caustica Liz (Hong Chau), che non gli risparmia battute e battutacce, e suona alla porta anche un ragazzo in cerca di nuovi proseliti per New Life, sorta di setta religiosa, che si affida per ogni pena a Dio, e che vuole “salvare” l’anima di Charlie.
Un tentativo di salvezza
Ma se la persona che lui ama se n’è andata, è morta proprio per espiare il suo non essere accettato per quel che era, un omosessuale, Charlie, in 4 giorni che sono probabilmente gli ultimi che il suo corpo potrà ancora affrontare, cerca di rimettere mano al puzzle della sua vita, tentando di ricucire i rapporti con sua figlia e sua moglie, attraverso la cosa che forse più lo caratterizza: la ricerca, in fondo, e sempre, di una positività al di là di ogni disperazione. Una ricerca che passa, anche e soprattutto, attraverso la scrittura.
La poesia, la letteratura, sono il suo modo per lasciare una traccia in questo mondo, la bellezza delle parole è forse l’unica via per essere sé stessi, per accettare i propri limiti ma anche per superarli e avvicinarsi forse un po’ di più ai propri sogni. E, in un parallelismo, che è tutto legato alla corporalità il testo che più rappresenta questa metafora e che va a sancire per Charlie un nuovo legame con la figlia è Moby Dick di Herman Melville.
Standing ovation infinita
La balena Brendan Fraser, nella dolcezza dei suoi occhi che soffrono, conquista per empatia il pubblico, per un film che è, come nei migliori esempi di Aronofsky, pure disturbante e doloroso, e che avrebbe potuto conquistare qui a Venezia 79, dopo 5 anni da quanto portò il divisivo Mother, una Coppa Volpi maschile.
Scelto dal regista, dopo aver cercato per dieci anni il suo possibile protagonista – così ha dichiarato – Brendan mette nella vicenda di Charlie, anche il suo percorso personale, quello di un attore super action, con una fisicità prorompente – Hollywood l’aveva eletto nuovo sex symbol – basti pensare alla saga La Mummia, di George of the Jungle, distrutto dagli antidolorifici, che, negli ultimi anni, ha preso peso, e la cui immagine è profondamente cambiata, anche se in The Whale, ha, per interpretare Charlie, anche utilizzato una protesi che gli ha fatto raggiungere i 140 chili.
Una sceneggiatura, questa, che si basa su un’opera teatrale di Samuel D. Hunter del 2012. Per prepararsi alla parte, Brendan ha lavorato a stretto contatto con l’associazione Obesity Action Coalition (organizzazione no profit che lavora sui temi dell’obesità e sulla sensibilizzazione), e alla prima a Venezia, di fronte ai lunghi applausi del pubblico, l’attore si è fortemente commosso, incredulo, quasi, della sua incredibile performance sullo schermo.
Un’interpretazione, che se non è stata premiata a Venezia, certo non potrà restare inosservata per gli Academy Awards, gli Oscar. Un film che è insieme un inno alla diversità e al perdono, e che, grazie alle emozioni che è in grado di far suscitare Fraser supera anche quell’elemento di claustrofobia che nei primi minuti della pellicola è molto presente e disturbante, riconducendo il dramma a quello che è: una storia d’amore, dolore, emotiva e catartica.