The Wild Blue Yonder è un non-film, un esperimento visionario di non-narrativa che è tutto il contrario di Sugarpulp. Però è una figata suprema.
The Wild Blue Yonder non è un film facile, come tutti i film di Werner Herzog del resto. Visto anni fa a Milano in un cinemino del centro (che ormai sarà chiuso) in un clima quasi irreale. Sala piccolissima, semivuota, pervasa da una strana sensazione di intimità ed empatia. Eravamo in 13, io e Lollo compresi.
The Wild Blue Yonder è un film visionario, difficile da digerire. Herzog ha incollato pezzi di filmati già esistenti girati per alcuni documentari e ci ha aggiunto un monologo strepitoso e stralunato dell’eccezionale Brad Dourif che, come al solito, perfora lo schermo con i suoi occhi da pazzo maniaco.
Per tutta la durata del film è completamente assente qualsiasi cosa possa essere chiamata ritmo. Impossibili da comprendere le complesse teorie scientifiche che vengono citate nel film (perlomeno da chi, come me, ha digerito a fatica il teorema di Pitagora) ma, nonostante tutto, si resta affascinati dalla poesia sprigionata dai deliri di Herzog.
Stupenda la teoria del trasporto caotico: Chaotic Transport sarebbe un bel nome per un gruppo musicale ma, a quanto pare, sembra che non ci abbia mai pensato nessuno.
The Wild Blue Yonder mi fa venire in mente sempre una sensazione estraniante, ma più che di sensazione credo sarebbe più corretto parlare di suono: questo è un film che ti lascia dentro un suono vuoto e inquietante, il suono dell’ignoto spazio profondo.
Malinconica e poetica le sequenze di immagini che vogliono rappresentare il cielo di ghiaccio perforato dai nostri astronauti, a ulteriore dimostrazione che la realtà supera sempre la fantasia. L’ignoto spazio profondo ci aspetta.