Tony Scott, l’ultimo regista d’azione

“I cattivi sono sempre più forti e più cattivi, e i boyscout sono sempre di meno” (Joe Hallenbeck, L’ultimo Boy Scout).

E’ proprio vero. E parafrasando questa citazione da uno dei miei film preferiti mi verrebbe anche da dire che i registi danarosi, pretenziosi e privi di un qualsivoglia contenuto (cfr. Michael “elicotteri al tramonto” Bay) sono sempre più danarosi e pretenziosi mentre i grandi registi d’azione sono sempre di meno. Oggi particolarmente.

Non so cosa sia passato per la testa a Tony Scott mentre con la sua Prius raggiungeva un ponte di Los Angeles e ci si buttava giù. Magari un giorno qualcuno verrà a dire che non si è trattato di un suicidio, qualcuno speculerà sulla sua morte (già su twitter le ipotesi più inverosimili si sprecano), qualcuno darà la colpa alla crisi, ad una malattia, ad un problema in famiglia, alla depressione.

Non so nulla di tutto questo, il privato è privato e non sono qui di parlare del come e del perché, d’altronde che ne so io? Sono solo un fan di film d’azione.

Tony Scott: l'ultimo regista d'azione

E penso che magari, se state leggendo questo, lo siate un po’ anche voi e di sicuro sapete quanta importanza ha avuto Tony Scott nello sviluppo di questo genere nel ventennio di transizione che va dagli anni ’80 al nuovo millennio, dal primo Indiana Jones a Crank.

Il suo lavoro è stato quello di un grande professionista, di uno che sapeva fare bene le cose. Uno che costruiva meccanismi perfetti, divertenti, veloci, però sempre centrati sul personaggio, sul protagonista, sull’uomo. Il vecchio boy scout stanco, disilluso e tradito Joe Hallenbeck ne è un esempio preminente.

Ma che dire delle coppie Washington-Hackman di Allarme rosso e Redford-Pitt di Spy Game, del fanatico Robert De Niro di The Fan, del tragico innamorato Costner di Revenge, dell’ingenuo Nemico Pubblico Will Smith? Cavolo, persino il macchiettistico Axel Foley di Eddie Murphy in Beverly Hills Cop 2 nelle mani di Scott esce dallo stereotipo del poliziotto scassatutto da commedia e acquisisce profondità.

Parlando coi ragazzi di Sugarpulp di Tony, proprio qualche minuto fa dicevamo quanto diverse siano le visioni cinematografiche dei due fratelli Scott. Si diceva quanto Tony fosse l’artigiano professionista (capace di far funzionare trama, scene d’azione e sviluppo del protagonista armonicamente, senza che un elemento sovrasti l’altro) e Ridley fosse il cineasta artista visionario, interessato alla luce, al montaggio e agli eye-candy spettacolari piuttosto che alla componente umana del suo lavoro.

La differenza è quella nietzchana tra Apollineo e Dionisiaco, tra serenità ed ebbrezza.

Ridley, in linea di massima, preferisce la visione classica della bellezza fotografica estrema, regno del bello in cui l’uomo spesso è un archetipo di purezza e forza, Tony preferisce (preferiva, purtroppo) personaggi con pregi e difetti che diventano faber dell’azione e non la subiscono secondo un predeterminismo eroistico alla Campbell: la trama è al loro servizio. Manco a dirlo, alcuni coccodrilli recitano oggi “E’ morto il fratello di Ridley Scott”. Eh. Fanculo.

Lo so, questo è solo fare un po’ di sci sulla punta dell’iceberg della critica cinematografica e non vorrei dare l’impressione di essere un anti-Ridley Scott anche se ufficiosamente e ufficialmente credo che dovrebbe smetterla di cercare le trame nei bigliettini dei baci perugina.

Paradossalmente, i film di Tony Scott sono più famosi di lui. Fate un’indagine: chiedete chi è il regista di Blade Runner e chi è quello di Top Gun. Sono entrambi cult ma vorrei proprio scommettere che di Top Gun pochi si ricordano l’autore pur citando a memoria battute del film o commuovendosi ancora quando sentono la pomiciofora Take my breath away, ricordando quel bel tempo di nostra gioventù quando i film ti coinvolgevano e, pur essendo action-flick ti rimanevano impressi per sempre.

Cavolo, a me è rimasto impresso pure il David Bowie di Miriam si sveglia a mezzanotte, primo lungometraggio di Scott e ormai cult della goth-generation, che tocca temi (quali l’appetito insaziabile e il desiderio sfrenato) che di certo mostrano una direzione nel cinema di Tony: quella del focalizzarsi sulla natura umana costi quel che costi.

Ed è quasi un paradosso che uno dei film più stroncati dalla critica di Tony Scott, Domino, sia in realtà per chi vi scrive una pellicola in tal senso eccezionale. In questo, per una volta, sono d’accordo con Tarantino che, senza Tony, probabilmente lavorerebbe ancora in videoteca.

E per l’angolo “forse non tutti sanno che” c’è da dire che Tony Scott ha diretto Una vita al Massimo la seconda parte della trilogia pulp Tarantiniana cominciata con le Jene e finita con Pulp Fiction. Con questo, la teoria che Tony Scott è stato il trait d’union tra il vecchio e il nuovo cinema d’azione è ben più che confermata.

Bé, la mia è una visione da fan duro e puro: non riesco proprio a trovare qualcosa di brutto nei film di Tony Scott così prendete questo pezzo (odierei che venisse chiamato coccodrillo) così come viene.

Di una persona che non c’è più si ricordano le cose belle che ha fatto. E io mi ricordo bene la discesa all’inferno di Tom Creasy, protagonista di Man on Fire e il momento in cui si avvicina ai suoi carnefici con una tuta blu col numero 24. Mi ricordo il suo sguardo: non quello di un gladiatore ma quello di un uomo che affronta la morte come qualsiasi altro uomo: spaventato, distrutto dalle ferite reali e psicologiche, quasi incredulo.

Di eroi comuni il sodalizio Scott-Denzel Washington ce ne ha regalati molti. Penso al detective di Deja vù, parimenti votato ad un sacrificio estremo per la salvezza dei più o ai due ultimi film di Scott: Pelham 123 e Unstoppable, capolavori di tensione filmica che ben s’inseriscono nel filone “train on the loose” con Cassandra Crossing e A trenta secondi dalla fine.

In entrambi i film Denzel interpreta un macchinista (di metrò nel primo, di treni nel secondo), non più un agente della Cia o un poliziotto e questo credo sia rivelatorio dell’ultimo Scott-pensiero: l’eroe è un uomo qualunque in una situazione straordinaria.

Capito Ridley? Tuo fratello c’aveva almeno una filosofia… e non mi venire a dire che “sposta quel faro da mille watt più a destra di sei centimetri” è una filosofia.

Come dicevo, questo pezzo non voleva essere una monografia. Gente più brava di me ne farà ad sfinimentum maronis. Voleva solo essere una chiacchierata su un regista che ha reso grande il nostro genere preferito lavorando più dietro che davanti ai riflettori, ricordando così il famoso Oriali cantato da Ligabue (non temete, non citerò mai più quel tale in vita mia) che costruisce tutto il gioco ma è sicuramente meno famoso della punta.

Tom Cruise, in Giorni di Tuono diceva: “Devi fare bene il tuo lavoro se vuoi riuscire a goderti la vita”. Probabilmente per Tony questo è stato vero fino a ieri. Bé, io ho conosciuto qualche regista, sono stato su qualche set e penso proprio di poter dire una cosa che solleverà qualche obiezione ma tant’è: fare il regista è il lavoro più difficile del mondo e Tony, cazzo se sapevi fare il tuo lavoro.

Frasi trite quali “ti rivedremo nei tuoi film” non ne voglio scrivere, né mi va di fare il lacrimevole. Anzi: quando succedono cose del genere io m’incazzo sempre. Potevi pensarci meglio Tony, prima di salire su quel ponte. Te lo dico da egoista. Hai visto che cacchiate che escono di recente? Ecco. C’era ancora bisogno di te.

E ora, se mi scusate, vado a ballare una giga.