La trimurti de noantri, uno spericolato viaggio di Danilo Villani tra le tradizioni romane: dalla Griscia alla Carbonara, dall’Amatriciana alla Cacio e Pepe.

In principio fu la Gricia.

Da pronunciare “Griscia” viste le sue origini fonetiche. Il nome viene da Grisciano, frazione di Accumoli oggi provincia reatina ma abruzzese dentro e fuori, dove la “madre di tutti i primi piatti” ha rivestito, dalla notte dei tempi, il ruolo di accompagnatrice dei pastori transumanti. Questo per ragioni pratiche oltre che di pura necessità: indisponibilità totale di frigo portatili o affini quali contenitori di polistirolo con annesso ghiaccio secco.

Quindi prodotti da “trasferta” a più che lunga conservazione: pasta secca, guanciale, pecorino. Con buona pace di qualche solone mediatico che insiste sull’uso di aglio e/o cipolla. Poteva mai un piatto così austero, così assoluto, rimanere solo, senza un’adeguata scorta?

Le prime relazioni sentimentali.

Durante il suo peregrinare lungo la dorsale appenninica si narra che la gricia avesse incontrato, paraninfi i pastori e i fattori locali, un partner con il quale fu amore a prima vista. Si chiamava uovo. Il classico coup de foudre che non poteva non produrre un’erede all’altezza. Venne battezzata Carbonara.

La fama che raggiunse fu di caratura globale. Come spesso avviene in questi casi, una controinformazione ad hoc attribuì la creazione del piatto allo chef Nino Bergese il quale nell’immediato dopoguerra con il bacon e la polvere di uova, gentilmente forniti dalle truppe d’occupazione canadesi, inventò la sua carbonara.

Il richiamo di Caput Mundi

L’insofferenza della Gricia a una sede stanziale è dimostrata con il viaggio nella Capitale. Qui, malgrado la “concorrenza” fatta di quinti quarti, di carciofi, di vignarole, riuscì con il suo innato fascino a conquistare un partner affascinante, sudamericano doc (già allora la Città Eterna era un melting-pot), che aveva già mietuto numerose vittime: il suo nome era Pomodoro.

L’unione venne chiamata Amatriciana. Unione peraltro sui generis visto che il rapporto divenne ben presto un menage a trois tramite la relazione mai nascosta con un altro tipo esotico a nome Peperoncino, tipo focoso e irresistibile.

Una e Trina

Si è scherzato, e molto, sui piatti cardini della cucina laziale/abruzzese. Piatti che come scritto in precedenza hanno rivestito nel tempo carattere globale. La loro fama ha travalicato i confini italiani dando anche purtroppo luogo ad elaborazioni che definire apocrife è un complimento: panna nella carbonara e/o pancetta come sostituto del guanciale. Le tre preparazioni oltre che l’origine hanno una caratteristica comune: nessuna deroga è ammessa. Si può variare solo il formato di pasta. E non sempre.

Glitch Finale

Non si può prescindere dall’onorare il piatto romano per eccellenza. Il più antico, il più diffuso e forse il più amato: la cacio e pepe. Piatto più che austero visto l’irrisorio numero di ingredienti. Piatto che le osterie romane d’antan proponevano nella versione “a secco” senza l’aiuto dell’acqua di cottura. Il risultato era un blob di pasta, formaggio e pepe il cui scopo precipuo consisteva nell’intorzare la gola dell’avventore e di conseguenza costringerlo a abbondanti libagioni con conseguente tropèa. Con estrema felicità dell’oste. Della malora.