Uccellacci e uccellini di Pasolini rimane un film misterioso ogni volta che lo si guarda, pronto ad offrire nuovi spunti su cui riflettere
Due uomini, padre e figlio, in cammino lungo un’infinita strada in bianco e nero: potrebbe essere l’incipit per centinaia di celebri film e, al tempo stesso, lo sfondo soltanto di un unico, famosissimo titolo: Uccellini e uccellacci di Pier Paolo Pasolini, girato nel 1966 e presentato lo stesso anno a Cannes. Una pellicola che fa nascere sensazioni nuove ogni volta che la si guarda, capace di celare nelle inquadrature un’infinità di significati che solo quel regista sapeva esprimere. Totò e Ninetto Davoli sono padre e figlio (mantengono i propri nomi anche nel film) e percorrono un’interminabile stradina bianca, sperduta tra i campi e le periferie della città.
Il genitore è impassibile, rigido con il suo completo e ombrello nero, mentre Ninetto saltella allegro e spensierato, scherzando e al tempo stesso pensando a temi esistenziali, come la differenza tra vita e morte. Il passaggio sempre uguale li segue, instancabile, mentre di tanto in tanto fanno la loro comparsa strane figure (un barista dallo sguardo inquietante, l’amica di Ninetto vestita da angelo che appare e scompare, ecc…). Ma i due non smettono di camminare. Chiacchierando tranquillamente, si imbattono in un corvo parlante, che si unisce a loro e gli chiede dove sono diretti, ottenendo di risposta soltanto “là”. Padre e figlio non rimangono tanto stupiti per il fatto che l’animale parli e ascoltano, senza capirci granché, i suoi lunghi discorsi. Tra questi, la bestia cita anche una strana storia, che alla fine è alla base dell’intero film: “una storia di uccellacci e ucellini”.
È il racconto di due frati, fra Ninetto e fra Ciccillo (interpretati sempre dai due attori), che al tempo di San Francesco devono eseguire un ordine datogli dal santo: convertire a Dio i falchi e i passerotti. Dopo le perplessità iniziali e tante preghiere, finalmente le bestie rispondono alla coppia e accolgono il suo messaggio. Ma non passa molto tempo che un falco piomba su un passerotto e lo mangia: la storia si conclude, quindi, con Totò e Ninetto che tornano a convertire i volatili. Il destino del corvo, finito il suo racconto, è segnato: padre e figlio gli fanno fare la stessa fine del grillo parlarne di Pinocchio, lasciandone soltanto le piume. I due sono infatti irritati dall’atteggiamento moralistico dell’animale, mal sopportandolo fino a quando Totò non decide di mangiarselo, aiutato dal figlio.
Uccellini e uccellacci è una film estremamente complesso, ricco di allegorie e metafore, più o meno intuibili a prima vista. A partire dal corvo stesso, che Pasolini spiega essere la rappresentazione di un intellettuale di sinistra, “prima della morte di Palmiro Togliatti”. E con ciò si spiega facilmente il fastidio che provoca a Totò e Ninetto, piccoli borghesi che fanno i prepotenti con chi non ha nulla e subiscono il disprezzo di chi gli sta sopra.
Quest’anno sono 40 anni dalla morte del grande regista e scrittore, ma i suoi lavori sono più attuali che mai. A partire dall’analisi religiosa dell’individuo che compie attraverso la storiella dei frati, speranzosi di aver convertito definitivamente due razze così diverse tra di loro, passerotti e falchi, per scoprire alla fine che non basta questo per appianare le differenze (nel regno animale come nella società). Il grottesco è una costante per tutta la durata della pellicola, portando sullo schermo la disperazione di una madre, che dice per tre giorni consecutivi ai suoi figli di tornare a dormire perché è ancora notte: “Se si svegliano – dice la donna – hanno fame” ma in casa non c’è niente da mangiare, se non un nido di rondini, ennesimo simbolo nell’opera.
Ossia il divorare la vita stessa, un cannibalismo verso la propria anima che distrugge il principio stesso della maternità per sopravvivere. In poco meno di 90 minuti, Pasolini fu capace di racchiudere una metafora agghiacciante e assurda della sua (e nostra) società, divida tra uccellini e uccellacci: i primi sono destinati a soccombere ai secondi, ma anche il rapace più aggressivo può essere sbranata a sua volta. Uno sguardo tristemente acuto su quanto l’umanità sarebbe degenerata, dagli anni ’60 ad oggi.