Un miraggio chiamato grande azienda – Parte I
Ogni tanto le bollicine dell’acquario portano a galla le opinioni di chi ha bazzicato le multinazionali. Il comfort food del mercato del lavoro. Già nel 2018 Greatplace to work faceva capire da che parte tirava il vento: le MegaImprese inglesi, italiane e tedesche fanno man bassa di premi per i posti di lavoro più succosi.
Da alcuni anni, grazie alle risposte al test Trust Index, i dipendenti privati corroborano l’autostima di manager aziendali schiavizzati dal non far scendere il ranking di credibilità, rispetto, equità, orgoglio e coesione della ditta.
Ma dando un’occhiata ai numeri, tanti entrano in una multinazionale, tanti ne escono.
Si è provato anche a dare un nome al fenomeno, chiamandolo job hopping cavalcando l’idea che siamo tutti fighi e che l’entusiasmo alla we can do it! dei neoassunti a qualunque età sia l’essenza del buon dipendente.
La NTT Data, gigante giapponese da 10 billion all’anno, scrive Fortune, ha organizzato un summit proprio per sviscerare la questione. Nada, sembra proprio che alla fine le multinazionali siano posti delle balle.
Anche creando ambienti di lavoro snelli, figli di concezioni rivoluzionarie del rapporto prestazioni-talento e team building all’avanguardia, troppi dipendenti restano scontenti della propria ditta. La colpa sembrerebbe dell’esagerata fluidità dell’offerta, con nuovi colossi, specialmente tech, che emergono e gareggiano su chi tratta meglio i dipendenti.
Peccato che poi pochissimi rientrino in categorie che accedono davvero a cotali bonus. Forse alla NTT Data nessuno ha visto The Incredibles della Pixar: non siamo tutti speciali.
E poi i talent, SE esistono, non arrivano in pullman.
Per tutti gli altri sticazzi, un posto vale l’altro, tanto vale cambiare ogni tre-quattro anni. Nulla di fatto quindi: tanta gente molla le multinazionali per realtà diverse. Deal with it.
Anche molti colossi nostrani sul modello Silicon Valley non sanno perché: farcisci pure gli uffici di zone relax, macchinette con roba BIO, ping-pong, caffetterie aperte h24. Tanto la gente dopo un po’ se ne va, perfino nel paese che si vende come il possessore del marchio di qualità assoluta anche su scala industriale, patria delle intuizioni più grandiose, gli imprenditori più visionari, del made in italy più invidiato e scopiazzato.
Alla faccia dei tempi in cui l’operaio e l’impiegato sposavano l’Azienda prima della fidanzata e il massimo della retention era il pacco di Natale con tacchino, spumante, 1kg di caffè e Cuneesi al rhum.
Chi lascia questi posti parla di holding in paradisi fiscali, uffici di replicanti marchiati Ivy League, poli produttivi nel quarto mondo, logistica in balia di pezzenti cronometrati e malpagati.
Nulla che intacchi il loro fascino inossidabile: per la plebe chiunque può galleggiarvi fino alla pensione e il 30 del mese il bonifico atterra con più prepotenza di uno stipendio statale, a dispetto di guerre, epidemie, pestilenze e invasioni barbariche che mettono in ginocchio Stati Nazionali e Grandi Intese.
Un’oasi di tranquillità in un mondo del lavoro venduto su Linkedn come un mare in burrasca. Ma ecco il punto della vexata quaestio.
Un’azienda è fatta di persone.
Una grande azienda è fatta di persone allo stato brado. Le dimensioni stesse ne garantiscono la regressione: una volta a bordo ci si accorge che si tratta di entità quasi impossibili da essere comprese in tutta la loro totalità, per cui il singolo può essere sé stesso perché non esiste trasparenza tra uffici dello stesso padrone in lotta fra loro, i precedenti fioccano, i sindacati urlano e il meccanismo repressivo non rappresenta una reale minaccia.
In questo ambiente il concetto di evidenza come base di un ragionamento vero perde di significato.
I figlidiputtana sono colleghi audaci, con una visione chiara del futuro.
Gli assenteisti sono dipendenti attenti a mantenere alte le proprie energie psicofisiche, enjoy your life!
I mutuaroli diventano persone interessate alla salute dei colleghi.
I cazzeggiatori seriali sono stacanovisti: in una piccola/media azienda sarebbe rapina a mano armata, senza passamontagna. Dove vige lo straordinario a pioggia è aziendalismo. Davvero tutti gli impiegatuzzi della palazzina B devono stare alla scrivania una media di 13 ore al giorno 6gg su 7 ad archiviare BEM, maturando mesi su mesi di permessi extra, anni di ferie ingodibili e 1k di email processate a cranio ogni settimana?
Al NAVSPECWARCOM gestiscono le incursioni dei Seals contro Boko Haram e fanno meno ore, forse perché in busta paga il contributo fiscale a carico dell’azienda è in un’altra riga…
Portate il ketchup!
Ma perché diavolo un colosso giapponese come la NTT Data ha sprecato tempo e denaro, scomodando la Gallup, aziendona che campa di servizi per multinazionali, per l’analisi di big data tanto complessi, quando bastava organizzare una gita dove un colosso ha dominato la storia nazionale per anni, sperperando benefit tra gli applausi di tutti, dimostrando quanto sia vero che non è tutto oro quello che luccica?
Tutti sono indinniati!1!! quando Apple&simili non pagano le tasse in IRL&co e trattano dimmerda i dipendenti alla faccia del best places to work for. Eppure tutti sappiamo del marcio che arriva dalla simbiosi tra mega ditte e stati nazionali.
Quando Berta filava, lavorare in FIAT era vivere nel posto d’oro.
Negli anni ’70 il torinese sonnacchioso esplose generando un hinterland grigio cemento di postacci come None, Cambiano, Nichelino, Montalenghe che accoglievano oceani di campagnoli semianalfabeti e carovane di meridionali con la valigia di cartone.
Si incancreniva il culto dell’operaio, si sparpagliavano decine di migliaia di salary e chi era chiamato dalla segretaria ragioniere era al top.
Poi la bolla esplose.
La gara quotidiana di indinniatione11! tocca troppo spesso la questione Fiat: multinazionale corrotta, ha fatto sparire i soldi, delocalizzato, destrutturato, sindacalizzato, inchiappettato.
Era il segreto di Pulcinella che rappresentasse versione tossica del contratto sociale: Stato caro, ti do lavoro a torme di rimbambiti, falliti, bulli e teste di cocomero d’altri tempi, tu mi chiudi un occhio su magheggi contabili e fai arrivare le sovvenzioni. La disoccupazione resta bassa, la gente spende e siamo tutti felici.
Poi la natura ondulatoria della Storia ha fatto finire tutto, ed è partito il voltafaccia.
Ma quando siete a Cambiano, mentre mettete a posto la damigiana di rosso comprata da Peppino ‘u speziale nella villetta che davano ai funzionari di Mirafiori, lui si accende una Gauloises ricordando i bei tempi. Uffici stile the Wolf of Wall Street, scioperi quotidiani nelle officine, angeli custodi a forma di sindacalisti, impunità, raccomandazioni, amici di amici, puttane, carriere di platino, trasferte al Sud per vendere macchine ancora da costruire a concessionari fantasma, asili nido per i dipendenti, colonie estive, carte fedeltà, agevolazioni immobiliari, fondi pensione.
Si morde nel molle: venite cugini, fratelli sorelle, mamme, vicini di casa e portate il ketchup!
Mentre vi togliete i guanti e Peppino tira fuori il portafoglio, realizzate che un trentennio prima ‘u speziale a ventitré anni aveva lo stesso grado contrattuale di vostra figlia a trentasei, dopo liceo, laurea, master, praticantato, stage, contratto di formazione e anno part-time.
Lei però prenderà tra 1100€ e 1400€ al mese fino alla pensione senza la villetta, non avrà mai i bonus che hanno fatto di ‘u speziale un borghesotto soddisfatto, sotto la costante minaccia di fare lo stesso lavoro, ma con la paga allineata al welfare del paese in cui verrà spedita, in caso di ridistribuzione dei carichi lavoratavi. Le opzioni sono India o Bolivia.
Un miraggio chiamato grande azienda – Parte II
A questo punto una domanda sorge spontanea. Ma se tutto questo sopra è vero, che razza di fauna bazzica oggigiorno una multinazionale?
L’operaio businessman.
Usa termini chiave come recessione, insolvenza, bot, bond mentre spiega ai pezzenti intorno le complesse meccaniche dell’economia mondiale e perché, da una parte, le scelte del padrone che vi schiavizza sono giuste. Oltre a catechizzarvi sul senso del lavoro, alla macchinetta o appoggiato alla bollatrice con 40 minuti di anticipo, vi confida a bassa voce un grande segreto, dopo solo due ore che ci lavorate insieme, tanto è magnanimo.
Giocherellando con la schiumina tra i fori della bacchetta per caffè, abbassa il tono e lo sguardo si fa distratto: più di una volta gli hanno proposto di diventare capo, dai è troppo in gamba per star lì. Ma ha sempre rifiutato con l’umiltà di Madre Teresa: troppo asimmetrico il rapporto salario/responsabilità, troppa mafia ai piani alti, il suo lavoro non lo sa davvero fare nessuno come lui, dove si andrebbe se lui non portasse gli scatoloni da A a B o gestisse l’ordine con cui le macchiniste vanno a far pipì?
Si barcamenava tra il fondolinea e l’officina prima che arrivaste, rimarrà lì per sempre. I suoi miti sono Renzi, Montezemolo e Farinetti di Eataly.
Il tipo powered by papi
Tra chi non conta nulla le leggende su chi sia raccomandato fioriscono quando a uno stagionale viene allungato il contratto una settimana in più del collega. In quanto numeri su registro dei presenti al lavoro, non si sono accorti che il raccomandato atterra sopra tre livelli dall’operaio specializzato più cazzuto dell’officina, diventando istantaneamente il capo del capo dei suddetti tizi che contano 0.
Il papi è lo chef del ristorante dove il padrone mangia la domenica a pranzo con la famiglia, vanta un CV di due righe, di cui una è la patente del motorino e la seconda la licenza media. Ha un vocabolario di 56 parole.
Ha messo il like alla pagina IoVotoPerBoboMaroni nel 2007 e da allora non segue più la vita pubblica perché ipoliticisonotuttiuguali. Porta una lunghissima chioma che ostenta dove tutti gli altri viaggiano blindati in tuta integrale-cuffietta-copribarba-guanti-antinfortunistiche. Segue Tempatation Island.
Ex astro del calcio locale, superati i 31 allena i Pulcini della cittadina in cui vive.
Il megadirettore galattico
Esistono davvero: calendario Pirelli autografato dietro la schiena, piano di lavoro in radica, vetrinetta con modellini dei camion della ditta, polaroid del safari in Kenya nell’82. Chic, elegantissimi anche casual, molto easy quando arrivano con la Fiat 500Anniversary della moglie che buttano nel posto auto interno per ricordare che potrebbero arrivare in BMW, ma non lo fanno.
Gente di mondo, affasciante, che gronda aneddoti come quella volta che a Tokyo con il padrone dell’azienda e il sottosegretario dell’Agricoltura hanno perso la coincidenza per il summit del WWF sulle colture ecosostenibili. Vorreste essere lui.
Lavorate anche a casa al progettino che vi passa facendo l’occhiolino, promettendo di tutto mentre vi chiama Fabio. Vi chiamate Fabrizio.
L’ex figo/figa decaduto
Non capita solo nei telefilm americani. È che usciti da quella bolla che è la scuola dell’obbligo marchiata Liceo, si capisce che siamo tutti uguali, ma qualcuno lo è di più. Hai voglia aver fatto il Classico, Economia, essere sempre calcolatamente figa ma non troppo, praticamente sorellina della Cecy la figlia dell’avvocato top della zona, amica intima di tutti quelli della _inserirenomecittà_Bene dove vive.
Ora è lì alle 05:36, in coda ai tornelli con davanti la tipa che perculava dieci anni fa. Mentre la prima cinguettava Fenoglio al Ginnasio, quell’altra era al corso da estetista, aveva sfornato almeno una figlia di nome Dheborah e tappata da sera faceva sembrare le modelle di Brazzers brave mogli afghane. Ma ora sono colleghe part-time alla linea 6E del confezionamento della Tonnara San Giulio di Pozzallo.
Non è che abbia sbagliato qualcosa, è successo e basta. Semplicemente la mamma di Dheborah è la nuova Cecy.
Il derelitto
Quelli che proprio non ce la fanno, ma hanno un’affascinante autostima da top player dell’NBA. C’è il furore professionale e c’è l’aggressività del poveraccio. La prima cosa è sacra, la seconda ridicola.
Il tipo che rotola in azienda a 39 anni, magrezza da tossico sopravvissuto, amicone dopo 2 secondi, ipercritico che fa quello che si informa, il Che era un mito, il Duce ha sbagliato solo l’omicidio Matteotti.
Siamo tutti felici che voglia darci dentro, ma c’è qualcosa di malato nel suo essere convinto di essere troppo avanti. Sfoggia diploma mancato di Congegnatore Meccanico negli anni ’90 ma ne sa come gli ingegneri mekkanici, fa due gg di malattia a settimana e ogni lunedì è in ritardo perché la domenica ha fatto serata.
Non lavora il weekend, nei ponti e quando gli è richiesto. Durante gli audit esterni affascina gli impiegati Deloit/Accenture spediti per punizione nel suo regno, raccontando come quella parte di mag. Materiali Vari sia determinante ma troppo trascurata. Versa ancora un contributo alla vecchina che a ventidue anni ha scaraventato giù dalle scale.
Ha almeno un figlio illegittimo. O non allaccia le Globe Fusion o fa un fiocco di tre spanne che ciuccia da ogni pozzanghera. Del suo passato non può parlare, ma ora ha messo la testa a posto.
È l’esempio classico della componente antiborghese di cui si era nutrito il primo fascismo. Regala spiegoni sulla vita mentre si fuma un cannone di nascosto tra i caricabatteria dei muletti.
Quello che fa carriera
Lo conoscete da anni: un vicino di casa simpatico, quel compagno di calcetto con un fiato discreto, quello bazzica fidanzate storiche, anche se sempre impegnato qualche colpetto ad amiche di Facebook non lo disdegna, tifa Torino, mette ancora le Hogan Intreactive.
Palesemente non è un genio, ma neanche un ritardato. Eppure è sempre al posto giusto nel momento giusto. È una specie di raccomodato dalle circostanze.
Perché alla fine: esserci c’è, il suo lo fa, al massimo chiede qualche giorno di ferie, se gli spaccate il culo non ribatte, se fa una balla lo confessa.
Entra operaio nel reparto più sfigato. Va in pensione come dirigente dello staff di quelli che guardano quella roba là, sai quei documenti che gira l’amministrazione al procurement… non i pagamenti dei fornitori, non i rimborsi delle blacklist, quell’ufficio che fa quei grafici kaizen…
HR della NASA
Accento dalla maestosità campana, orologio dal quadrante esagerato, pantaloni che si accumulano sui mocassini sottomarca a punta. Età indefinita tra i 25 e 35, lo dovete chiamare dottore, ha sempre l’auricolare Bluetooth nell’orecchio.
Ha una specie di triennale in Management Business Administration Human Resurces and Performance of Extracee Billing Masterdata. Una divinità dal passato accademico e dalla profondità culturale tali da poter essere il selezionatore di un’agenzia spaziale.
Ha iniziato elementari, medie e superiori con un anno di anticipo perché da dove arriva lui si usa così, finendo sempre con il massimo dei voti, ha fatto il Classico, semiprofessionista di calcio + livello da conservatorio di pianoforte.
Un particolare modello di umano che bazzica l’HR di cui nessuno ricorda il nome anche mentre è in forze lì. Dopo una manciata di mesi viene parcheggiato in uffici strategici come il compensiont&gifts o incaricato di guidare le gite scolastiche in un capannone di cui non sa nulla.
Anche da questi avamposti del fatturato viene spostato ogni tre/quattro anni dopo che ci si è accorti di aver regalato l’indeterminato a un coglione.
Qualsiasi cosa abbiate sul CV non gli basta e sorride, agitando le mani giunte come per dire che lui ce la sta mettendo tutta per farvi lavorare, ma davvero, non sussistono le basi…
È uno che pontifica. Vi state candidando per lo stage non retribuito in amministrazione. Avete 25 anni, magistrale in lettere, master alla Sorbona, fluent in inglese e francese. Ridacchia e vi chiede dove pensate di andare con quelle premesse. Vi offre un posto da ramazzatore sfridi linea E.
Allo stage piazza Enrichetto, 29 anni, corso da 120 ore di cucina, suo cugino.