L’uomo senza sonno, la recensione di Alberto Spinazzi del film di Brad Anderson del 2004 con uno straordinario Cristian Bale.

L’operaio Trevor Reznik, non dorme da un anno. Ha un aspetto allucinato e cadaverico, gli occhi stralunati e un corpo emaciato, si lava sempre le mani con il detersivo come se dovesse raschiare qualche insopportabile ricordo.

Lavora in una fabbrica, frequenta abitualmente una prostituta, e dopo il suo turno ogni sera si reca al bar dell’aeroporto per un caffè e una fetta di torta ma soprattutto per parlare con la giovane barista.

Questa l’ossessiva routine di Trevor Reznik. La peculiarità del film è il procedere per verosimiglianze che solo nel finale riveleranno l’allucinazione.

Nel parcheggio della fabbrica Trevor incontra Ivan, un uomo tarchiato e calvo. Non sa ancora quanto questo uomo gli cambierà la vita. Trevor lavora in una fabbrica, a contatto diretto con macchine e complessi congegni meccanici (infatti il titolo originale più riuscito del film è The MachinistIl regista è abile nel rendere le macchine vagamente antropomorfe, capaci di fatali soluzioni).

Il film si snoda per immagini allusive che hanno nella macchina un simbolo pregnante da cui deriva, come in un gioco etimologico, l’arcaica macchinazione di cui soffre il protagonista, ossessionato da visioni di complotti. Lo stesso luogo domestico dove vive è teatro di allucinazioni che trasformano oggetti di uso comune, come il frigorifero e altri elettrodomestici, in diabolici ed enigmatici strumenti.

Un giorno in fabbrica, dal niente appare Ivan mentre Trevor sta manovrando una macchina complessa. Lo stupore per l’apparizione è tale che Trevor distoglie lo sguardo dal lavoro provocando un incidente a un collega la cui mano finisce stritolata dalla macchina che Trevor doveva controllare. Nessun collega vuole credere alla versione dell’operaio disattento che giura sulla involontarietà della disattenzione.

Dalle sequenze precedenti e susseguenti, si capisce che Trevor è l’unico che può vedere e parlare con Ivan. Ivan appare e scompare senza una logica, non tanto per indurre Trevor a una coscienza senza peccati, ma, in un clima quasi biblico, per insegnargli come gli errori esistano e bisogna accettarli. Anzi, bisogna accettare la realtà anche quando se ne è causa, sia essa positiva o negativa.

A questo punto del film si capisce definitivamente che Ivan altro non è che l’incarnazione del senso di colpa di Trevor, resosi colpevole, un anno prima, di aver investito un bambino senza soccorrerlo, provocandone la morte.

Deciso di autodenunciarsi alla polizia, finalmente Trevor potrà prendere sonno.