Dimenticate le serie tv: i videogames sono la nuova frontiera della letteratura. Una polemica culturale di Giacomo Brunoro dalle pagine di Sugarpulp Magazine.

Da un po’ di tempo a questa parte “quelli bravi” sostengono che le serie tv sono la nuova frontiera della narrativa (in particolar modo della narrativa di genere), che le serie recenti hanno cambiato la letteratura, che i nuovi guru della scrittura e della narrativa sono gli sceneggiatori tv. Tutte robe vecchie e sepolte: la nuova frontiera della letteratura sono i videogames.

Chi parla di serie tv oggi parla già di passato, non si rende conto che esiste un’enorme fetta di pubblico che non guarda minimamente la tv, milioni di persone che non sanno neanche di cosa stiamo parlando. Un pubblico destinato a crescere sempre di più, peraltro. Sto parlando infatti dei giovani veri, non dei soliti trenta/quarantenni adultolescenti che giocano a fare i giovani.

Per questa enorme fascia di pubblico Kevin Spacey è il tizio che c’è nel nuovo episodio di Call of Duty, neanche sanno che esiste House Of Cards. Non parliamo poi di archeologia come I soliti sospetti o American Beauty.

Un po’ di numeri

Il mondo dei videogames oggi sta sviluppando una complessità narrativa inimmaginabile per qualsiasi altro media, può attingere su risorse impensabili per altri settori (soltanto le mega-produzioni di Hollywood possono permettersi budget paragonabili a quelli dei videogames), alza l’asticella della sfida al futuro giorno dopo giorno.

Parliamo di un mondo in cui le 12 milioni di copie vendute di Call Of Duty – Ghosts sono un flop. DODICI MILIONI DI COPIE. UN FLOP. #CIAONE

Giusto per rendersi conto della portata del fenomeno, Activision nei primi 5 giorni di commercializzazione di Destiny ha incassato 325 milioni di dollari. Stiamo parlando di una società che ha dichiarato 1,17 miliardi di entrate nel quarto trimestre del 2014, con profitti che sono passati da 90 milioni di dollari a 173 milioni di dollari rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Complessità dalle radici profonde

Ma, attenzione, non si tratta certo di un fenomeno nato oggi, né di un fenomeno esclusivamente commerciale. Il mondo del games e del videomgames (è bene non confonderli) ha una matrice profondamente culturale, letteraria e narrativa.

Se io fossi uno scrittore oggi sognerei di firmare un contratto con BioWare o con Rockstar Games, non certo con Mondadori o Random House.

E non soltanto per motivi economici, ma per le enormi e virtualmente infinite potenzialità di sviluppo di progetti di questo tipo, oltre all’influenza culturale profonda nel mondo reale che potrei sviluppare con il mio lavoro.

Non c’è limite agli Universi che si possono creare oggi partendo dai videogames. Giusto per fare un paio di esempi, è sufficiente pensare a come i videogames abbiano espanso oltre ogni immaginazione gli immaginari di opere come Star Wars o Dune, due universi creati su media diversi che nei videogames hanno trovato linee di sviluppo inediti e straordinarie.

Soltanto oggi cominciamo a capire l’enorme influenza culturale dei vecchi arcade anni ’80, che hanno letteralmente rivoluzionato il modo di concepire la narrativa di intere generazioni partendo dagli 8 bit e che hanno marchiato a fuoco i veri visionari che hanno scolpito le basi dei nuovi grandi immaginari collettivi moderni.

Quindi i margini per una discussione approfondita sulla portata culturale e narrativa del mondo del gaming sono davvero enormi.

Experience infinita

L’esperienza vissuta da chi videogioca del resto è infinitamente più profonda e complessa rispetto a soltanto pochi anni fa, è evoluta su infiniti piani narrativi e comprende sviluppi che oggi ancora non siamo in grado di realizzare in maniera concreta.

Provate soltanto ad immaginare il livello di personalizzazione, di multimedialità, di coinvolgimento, di potenziale. L’experience vera e propria di un videogames oggi va al di là della singola partita e si estende a un mondo fatto di libri, film, siti internet, merchandising, abbigliamento. Una mitologia espansa totalizzante e dalla durata virtualmente infinita.

Non c’è nessun altro media o strumento culturale che possa minimamente competere con la complessità strutturale narrativa dei videogames, che offra così tanta possibilità di interazione e di sviluppo, che riesca ad operare su così tanti livelli e con così tante fasce diverse di pubblico, capace di intrattenere chi si limita a sparare a caso spegnendo il cervello ma allo stesso tempo anche di stimolare lo sviluppo culturale di chi vuole esplorare le dimensioni altre del gioco, a partire da quella narrativa.

Sempre più periferia dell’Impero

L’intellighenzia italiana però è ferma a discutere di serie tv, di libro e ebook, di canali tv in streaming sul web… tutti fenomeni che sono già il passato e che sono sempre meno rilevanti in prospettiva futura.

Non dico che non siano attuali e che possa essere interessante parlarne, ci mancherebbe altro, si sono sicuramente moltissime persone interessate a tutto ciò. Il futuro però è un’altra cosa.

Del resto non posso dimenticare che stiamo parlando di un Paese che ha sistematicamente ignorato tutte le grandi discussioni culturali degli ultimi vent’anni. Giusto per fare un esempio basta pensare al modo scandaloso in cui è passato sotto silenzio La coda lunga di Chris Anderson che nei giornali italiani non è praticamente mai arrivato (ma del resto anch’io che tiro in ballo i giornali dai…).

Le grandi polemiche culturali italiane (sic!) sono quelle sul New Italian Epic, sulle differenze libro-ebook, sul fatto che in Italia non si leggono libri (quando non ci si rende nemmeno conto che il libro non è più un punto di riferimento per la lettura), sui nazi-grammar (che parlano di un qualcosa che non è mai esistito se non nelle loro teste di ansiosi con manie di controllo), sul ruolo politico degli scrittori.

Si parla ancora di “scrittori” o di “autori” come se queste parole avessero un qualche senso nella società moderna. Non ci si rende nemmeno conto che si tratta modelli culturali che non esistono più nei modi in cui si erano strutturati nei decenni scorsi.

Siamo sempre più periferia dell’Impero anche perché non abbiamo un’élite culturale capace di avere una visione lucida del presente (e di conseguenza del futuro), perché “quelli bravi” sono incapaci di imporre polemiche e riflessioni culturali che vadano al di là dei miseri interessi personali.

Il mondo della Cultura italiano è suicidato dai soliti sospetti che hanno come unica preoccupazione la reiterazione di comportamenti vecchi, che sono diventati professionisti di se stessi; perché da noi i blogger sognano di vedere il loro nome stampato su un libro Guanda o Adelphi (non si permettono neanche di sognare Mondadori, sognano in piccolo…), perché i nostri giornalisti online sbavano per una citazione sul Corriere della Sera, perché  grandi intellettuali della cultura venderebbero l’anima al diavolo per un’ospitata in tv, magari a Quelli che il calcio.