Vuvuzelas, un racconto inedito di Francesco Pasquale per Sugarpulp
Tracklist consigliata:
- Shakira – Waka Waka
- Billy Idol – Hot In The City
- Vasco Rossi – Cosa succede in città
Questa storia è tratta da un fatto vero, accaduto in un paese vero, per mano di persone vere. Tutti i pensieri e le idee e tutto quello che viene detto dalla bocca di Tizio, Caio o Sempronio sono di pura fantasia (ma anche no). I nomi sono fittizi. L’idea non è di indagare sul perché o il percóme o il percòsa sia successo o non successo questo o quell’altro. È solo realtà portata sul bianco e amaramente dolcificata.
L’afa non se ne voleva andare, difatti era ancora luglio. Aristide se ne stava seduto in soggiorno, sperando che un filo d’aria osasse entrare dalla finestra.
“Estate demmerda!”
Aristide odiava l’estate. La odiava perché nessuno aveva nulla da fare. Tranne lui, ovviamente. Lui doveva laorare. In officina.
Per televisione passavano l’ennesima puntata di quell’ispettore bavarese che da bambino amava tanto e – nonostante fosse la centotrentaseiesima volta che se la sorbiva – non aveva nessuna idea di perdersela. In fondo dopo un’intera giornata a faccia a faccia colla fresa, aveva pure il diritto di guardarsi la sua dannata televisione; e niente doveva disturbarlo.
Patatine e peroncina. E che altro di meglio poteva desiderare? Mica era una di quelle checche laureate che si mettevano a dir su cose di letteratura/storia/sociologia. Lui laorava. Chi cazzo se ne chiavava di quelle puttanate? Roba da froci, e comunisti. Ecco! Cazzate inventate da vecchi studenti sinistrorsi per fottersi la sua strasudata paga. Lui aveva sempre fatto il suo laoro seriamente. E aveva sempre laorà fin da quando poteva ricordarselo. Che cazzo te ne facevi di un diploma? Che cazzo saltava in mente a quei fancazzisti ad andare in piazza e bloccare treni – ogni autunno eh! ogni autunno! – quando centinaia di laoradori dovevano andare a laorare? Sapeva bene che è la gente laureata quella che ti frega. E lo sapevano anche quei laoradori. Ma il governo non faceva niente. Comunisti.
Aristide, poi, guardava sempre con rispetto il suo ispettore bavarese. Quello l’era un omo! L’omo che non si piegava a niente e a nessuno. Che faceva vedere che bisogna rigar dritto. Che bisogna rigar. Che bisogna.
Ah, ce ne fosse di gente come lui dalle sue parti! Uno sceriffo, che mette dentro i delinquenti! Spacciatori. Truffatori. Inbriagoni. Parassiti del sistema!
Ad Aristide piaceva guardare i telegiornali sui canali privati. Ogni giorno c’era un cinese da metter via, un sìngano da fermare, un negro sporco e clandestino.
PUBBLICITÀ. SPOT DEI MONDIALI.
Ah sì! Anche i mondiali si erano messi quell’estate. Tutti quegli strapagati cazzoni che passavan la loro vita a tirar calci a un pallone di cuoio. Aristide ci giocava che era un bocia a pallone; poi era andato a laorare.
Aristide pensava; e pensava che i soldi delle tasse che lui pagava, andavano a finire nelle tasche di quelli là. E lui laorava sempre per riempirli di donne e schei e macchinoni, mentre lui doveva stare tutto il giorno in officina.
“Che vita demmerda!”
Già pensava a domani che doveva tirarsi su dal letto alle cinque per andare al capannone, ché era in turno.
RICOMINCIA IL PROGRAMMA.
Comunque c’era il suo ispettore bavarese per ora; e fino a mezzanotte se lo sarebbe guardato. Eran le undici e poco prima era andato a prendersi un’altra peroncina.
Ma che omo che l’era quel bavarese! Anche con le pistole ci sapeva fare!
C’era la scena di quando l’ispettore si trova davanti al secondo omicidio. Quello che fa saltare tutte le ipotesi precedenti. Dove classicamente la vittima è una donna (figa anche!) trovata esangue e tutta nuda in terra. Poi si vede l’assassino saltar fuori da dietro e scappare, mentre l’ispettore si mette a corrergli dietro. E l’altro ogni tanto si gira di spalle – senza che il volto venga ripreso – e spara due o tre colpi. Ma l’ispettore, ovviamente, non riesce a prenderlo.
“Però!” esclamava dentro di sé Aristide – sebbene la sapesse a memoria, la puntata.
Aristide si accendeva la sua malborina, e tirava. Il fumo si spargeva per tutto il soggiorno. E a chi dava fastidio?
Il suo soggiorno era scarno: poltrona, televisore, credenze, finestre. Pareva la provinciale di Montebelluna da quanto era vuoto. Ma dentro la credenza custodiva gelosamente la sua doppietta. Quella che usava quando le domeniche libere andava a caccia. Lui e i suoi compari andavano sempre là nei boschi a sparare ai loro osei, che poi finivano sistematicamente in pentola. Doppietta carica, s’intende.
Eh ciò, mica poteva pensare che nessuno entrasse in casa sua. Con tutta la delinquenza che c’era in giro. E il sindaco non faceva niente. La polizia neanche. Quella stava sempre a vigilare che le officine fossero in regola, che le tasse si pagassero. Le tasse. Altra estorsione di denaro, ecco cos’era! C’era crisi, la gente disoccupata, gli altri venivano a rubare il lavoro; e quelli volevano anche le tasse? Comunisti anche loro.
Aristide non si interessava del suo soggiorno. E neanche della doppietta più di tanto, visto che non la usava più. Non fosse stato per quegli stronzi ambientalisti verdi e comunisti. Si era sempre cacciato e sparato alle bestie. Che cosa gliene fregava a loro? Ché erano vegetariani? E allora? Mica lo era lui. Sicuramente erano laureati. E sicuramente in filosofia.
Il programma dell’ispettore continuava. Ora si vedeva la scena sanguinolenta dove l’assassino ammazza la terza vittima.
C’è da capire che la terza vittima – di norma – è quella che ha capito come stanno le cose, e vuole risolverle lui (“lui” sì, perché di solito è un uomo). Essendo però mona di natura, non si premunisce di pistole o coltelli o doppiette; e va a finire che l’assassino (che ha capito dove l’altro vada a parare) l’ammazzi. Di solito lo pugnala al petto. È un classico la pugnalata al petto. C’è tutto un rituale dietro: la lama si conficca dentro dentro nei polmoni e va a provocare un’emorragia che li fa riempire di sangue; e il coglione cade agonizzante a terra, tra terribili contorcimenti – certo.
Aristide pensava che in effetti fosse così il modo di trattare certi parassiti delinquenti. Manganellate giù per il cranio. Calci all’addome. Pugni al setto nasale. No: troppo poco. Certa gente non lo capisce – di natura. Soprattutto gli slavi. Ma neanche tutti gli slavi, di più i rumeni.
Aristide, comunque, non era razzista. Semplicemente a lui avevan sempre insegnato che ognuno nasceva nel posto in cui doveva stare. Là. Avevan voglia gli studiati a spiegargli che tutti venivamo dall’Africa, e che poi l’uomo avesse colonizzato il mondo. Cazzate da laureati.
Ma alla fine non ce l’aveva con tutti i foresti. C’era un tipo con cui a volte prendeva il caffè alle macchinette: tale Mustafà – marocchino. Un tipetto tarchiato e sbarbato. Non era cattivo, però se attaccavi bottone non la smetteva più. Ma laorava, e tanto bastava.
L’ispettore bavarese, intanto, stava collegando tutti gli indizi degli omicidi. Il primo era il macellaio, la seconda era la donna di prima (quella figa – chiaramente), il terzo era il parroco e tutto faceva pensare che le prove portassero a… VVVVVVVVVVVVVV!!!!!!!!!!
“Ma chi casso xe questo ‘desso?!” scattò improvvisamente Arisitide.
Da fuori era entrato un rumore ronzante e potente che gli aveva fatto rovesciare la patatine sul pavimento – già unto di per sé.
Aristide prese forza e si alzò dalla poltrona con tutto se stesso: la sua trippa / la sua canottiera / le sue mutande / le sue ciabatte / la sua barba vichinga. Si trascinò fino alla finestra aperta, guardando giù. Niente. Il solito e chiassoso bar era, come al solito, aperto. Ma niente.
Aristide allora tornò a risedersi sulla sua poltrona.
L’ispettore stava ancora discutendo con il suo assistente, arrivando alla soluzione degli omicidi, e se si teneva in conto che il macellaio era un ammaliatore, che la donna (figa, certo) andava spesso da quello a prendere la carne macinata per il marito e che – con altrettanta frequenza – frequentasse la chiesa: l’assassino, a questo punto, altro non poteva essere che… VVVVVVVVVVVVVV!!!!!!!!!!
“Eh ancora! Dio c##!”
Di nuovo quel rumore ambiguo. Che poi, a pensarci, aveva un che di famigliare – ma Aristide non riusciva a indentificarlo.
Questa volta, allora, si alzò con più decisione dalla poltrona: per andare a vedere che fosse.
Arrivato alla finestra vide un gruppo di giovani sbarbatelli ridere sguaiatamente; e uno di loro teneva una strana tromba colorata in mano.
Ma ecco che cos’era! Un’ostia di vuvucalcossa. Il nome gli sfuggiva. L’aveva vista in mano – o meglio: in bocca – a dei tifosi negri del Sudafrica ai mondiali. Quelle bestiali trombe da stadio di merda che frantumavano in migliaia di pezzi i coglioni di giocatori e tifosi.
«E ‘lora? Volìo molarghela zo là?!».
I tre sbarbatelli alzarono lo sguardo alla finestra.
«Ah nonno! Chevvoi?».
«Tornate a dormi’ e nun ce rompe’ er cazzo!».
«Vattenapija’ ‘na valeriana nonno!».
Meridionali insolenti/mantenuti del cazzo/fancazzisti parassiti!
Aristide, sentite le parole dei tre, le prese sul personale.
«Ma co’ gh’avìo, teroni de merda?! Ghe xe zente che la xe drio farse i casi sui in casa, e v’altri vegnì qua a ronpare le bale! Tornè in baita, in Teronia!».
«Ahbbello! Nun t’agita’ troppo che te piji ‘n attacco de core!».
«Vatte a riposa’ nonno!».
«Stattebbono!»
Romani. Peggio dei rumeni. Ecco le altre tasche in cui finivano i soldi delle tasse! Ladri, e terroni!
Fu così che Aristide – tanto per calmarsi – tornò a sedersi sulla poltrona ad ammirare il suo ispettore. Ce ne fosse uno di così, in quel momento!
Ormai il caso era chiuso. Stava per finire la puntata, ma la battuta finale doveva ancora arrivare. E Aristide era un esperto di battute finali. Voleva proprio verificare se le ultime parole della puntata fossero quelle che si ricordava.
Ecco lì: la scena in ufficio, tutti assieme a bere il caffè, primo piano sull’ispettore, zoom-in sulle labbra, piano piano stava per aprirle e…. VVVVVVVVVVVVVV!!!!!!!!!!
“Madona p@#¶@**@! Can del porco d@#!”
Basta. Questa non poteva passare. Se nessuno avrebbe fatto giustizia su questi stronzi allora se la sarebbe risolta lui.
Aristide prese dal comodino la doppietta. Controllò che fosse carica e si girò verso la finestra, fendendo l’afa. S’avviò per l’apertura sul muro e sparò tre colpi in aria.
«Ve verzo la testa se no la finì, cojoni!».
«Sticazzi!» esclamò l’uno.
«Staffuori questo!» commentò l’altro.
«Annamo dentro va’!» propose st’altro.
E si ritirarono nel bar.
«Che s’ciope el Vesuvio da novo dio b*#@!» pensò Aristide tra, sé e sé – sapeva che il Vesuvio si trovava a Napoli, ma dal Po in giù faceva lo stesso.
In bocca teneva quel gusto di sudore misto a ferro/tabacco/birra e salato; sapore del sangue. La testa lo pestava e ripulsava forte, che pareva le trivelle dei lavori del comune.
«Che i vaga in mona de so mare!»
Terroni. Mezzi negri misti ad arabi che occupavano l’amministrazione. Statali paraculati e raccomandati. Mafiosi. L’avrebbero capita dopo questa.
Calmatosi, Aristide spense la tivù. Lasciò tutto sul tavolino com’era e si avviò verso il letto. Spense l’abat-jour che aveva tenuto un secondo accesa per togliersi gli ormai morenti calzini; e si infilò sotto le coperte.
Nel buio silenzioso in cui si trovava, si mise così a pensare ai suoi soliti giochetti. Le sue incursioni serali a Tarvenelle. Aveva ancora in testa la puttana albanese che s’era trombato l’altra notte. Che tette! Da perdersi dentro e leccare, e leccare. E due gambe che ad accarezzarle parevano pezzi di 1810 appena levigati. E la sua figa! La sua gnocca umida dava lo stesso sollievo del passarsi un canovaccio bagnato in pausa, dopo quattro ore dentro quel fottuto capannone cocente. Dio che paradiso quest’inferno! Sentirsi il cazzo accarezzare lievemente l’interno coscia di quell’albanese; quella rondella da 20 che s’infilava naturalmente nella sua vite fino ad arrivare lì, raggiunger lì e veni… VVVVVVVVVVVVVV!!!!!!!!!!
«E ‘lora no i la g’ha capìa, eh?! Cancari fioli de ‘na roja!»
Ormai era tardi per contenersi. Aristide era uscito di testa. Completamente.
Come un cinghiale raggiunse la porta dell’appartamento, prendendo al volo le chiavi della Panda.
«In ‘sto mondo de merda biò rangiarse? E mi me rangio!»
«Ah, ‘sti ani la jera difarente!«» meditava scendendo le scale fragorosamente.
Era arrivato al garage, che montò sull’auto. Nell’orgasmo della furia che gli era presa faticò non poco ad inserire le chiavi nell’auto e mettere in moto. Ma alla fine fece partire il motore. Mise in folle per aprire il portone e – rimontato – partì pestando pesantemente sull’acceleratore.
Direzione bar. Alla velocità di 40 chilometrilora si lanciò senza controllo contro l’entrata del locale.
Partì da ogni parte un volare di vetri e persone che, disperate, cercavano riparo all’interno del bar. Un’esplosione di bicchieri/vetrine/posate si protraeva per tutto il perimetro dell’edificio. Il tutto mescolato con un frastuono metallico misto a ferro e lamiere contorte, servite con le urla dei poveri avventori – a parte.
Aristide scese dall’auto e raccolse – brandendo a mo’ di mazza – la prima sedia che gli capitò tra le mani, sfasciando e dannatamente uccidendo tanto di più possibile ci fosse nelle vicinanze.
Ammaccature e sfrisi ovunque. La gente cercava di raggiungere le finestre. La tivù, che ancora andava, trasmetteva “Porta a Porta” e si plaudeva alla serietà dei provvedimenti del Governo contro la criminalità.
Il tutto si esaurì in pochi minuti, mentre il padrone del bar cercava in ogni modo di contattare le forze dell’ordine.
Fu in quel momento che il vecchio operaio pensò di cercare i diretti responsabili di quel macello – in quanto lui era stato istigato da quelli. Si mise così a sbraitare nervosamente «Teroni de merda!», sincronizzando menate degne del più selvaggio orso dell’altipiano, rovesciando tutto quello che gli capitava a tiro.
Non passarono cinque minuti che tutti erano fuggiti dalle finestre, mentre i lividi e le ferite dei tagli sulle mani di Aristide, il sudore accumulato, gli sputi, l’urina dell’emozione e le urla; schizzavano macchie giallorossoverdi ovunque. La barba di Aristide era rossa di sangue e bava, che pareva a quella di Odoacre.
Improvvisamente si sentirono alcune sirene in lontananza e, rapidamente, si avvicinarono dei lampeggianti blu, che circondarono l’edificio.
«Lei là dentro! Esca: è circondato!»
«’Ndè in mona, dio #@#!»
Partì l’irruzione nel bar. Il maresciallo col suo appuntato cercavano in tutti i modi di immobilizzare la bestia-Aristide, che si divincola da ogni parte.
«Ma guarda un po’ chista coss’!»
«Ve copo! Ve copo!»
«Genna’! Tiraji ‘a scarricata!»
L’appuntato eseguì l’ordine sguinzagliando ad Aristide 20 volt di scarica elettrica. La fiera cadde tramortita a terra.
«Caccia grossa oggi, marescia’!»
I due lo caricarono sulle spalle, facendolo salire sull’Alfa di servizio.
«Ah, acchiscti! Se ne stanne sempre buonibbuoni, e d’un tratte se n’escon di capo!»
«Genna’! Non far ‘o filossofo. Sta’ qui buonobbuono e ammanetta acchiscto. Fatt’aiutare dagl’altri. Vado a rintrasciare ‘o padrone d’o bar.»
«Agliordini, marescia’!»
Nel mentre, tutto il vicinato era uscito ad assistere allo show. Quel bar, sebbene spesso chiassoso, non aveva mai dato spettacoli di quel genere.
Le notizie arrivavano sempre più nitide un po’ alla volta dal piano terra, fino in cima – verso gli ultimi appartamenti. E i commenti non si risparmiavano.
«Guarda te, se bisogna arrivare a questo per farsi ascoltare!»
«Dovrebbero mettere via gli avventori, non lui!»
«Che coraggio! Lo facciano sindaco!»
«Ce n’è vorrebbe di più, di gente come lui!»
L’appuntato alzò la testa: «Signori! Non ci sta nulla dagguardare. Tornat’addormire!» Tutti si ritirarono nei loro appartamenti.
Il locale se ne stava là. Contuso e frantumato, come Berlino nel ’45.
Gli avventori s’accasciavano a terra. Il padrone si lamentava col maresciallo. Le volanti lampeggiavano. E Aristide ancora mugugnava stordito.
Per un po’, di vuvuzela non ne avrebbe più sentite.