White Noise, la recensione di Silvia Gorgi del film di Noah Baumbach tratto dal bestseller di Don DeLillo che ha aperto Venezia79.

È un rumore bianco, netto, come quello di un sacchetto di plastica della spesa quando viene aperto, come quello di un prodotto che cade in un carrello del supermarket. Presente, fra le chiacchiere della gente, immerso e costante, nella quotidianità. Un campanello d’allarme, il risveglio dell’anima o della coscienza?

Con il tema della morte si confronta Noah Baumbach, in White Noise, a Venezia 79, partendo dalle suggestioni del romanzo di Don DeLillo, Rumore Bianco, che analizza una famiglia, che nella società prende coscienza della caducità della vita attraverso un evento catastrofico: è quello che succede a Jack Gladney, a sua moglie Babette, e ai loro figli, nella loro tranquilla vita in una città del Midwest.

Anche se quel tormento ce l’hanno dentro sempre, quando Jack fa il professore al college, narrando della paura della morte che nelle masse prende forma attraverso le certezze propinate da un uomo violento e mammone, come il Fürer, o quando Babette se ne va a fare lezione di ginnastica agli anziani del quartiere. Ad allontanarla, quella paura e quel rumore, una quotidianità sempre uguale a sé stessa, sicura, con le colazioni, tutte le mattine, della famiglia Galdney, con i figli nati dai precedenti matrimoni e l’ultimo di entrambi, mentre tutti parlano continuamente, e il silenzio non ha mai spazio. Ma Babette ingurgita pastiglie per mettere a tacere quel rumore, quello stato emotivo. Forse qualcosa non va?

Imbottirsi di pasticche, di certezze, di prodotti da supermercato, ci salva dalle paure. Le sposta. Ma quando la paura bussa alla porta? Sotto il segno della nube tossica, che colpisce la loro zona, del disastro collettivo, i binari della comfort zone non sono più percorribili, e la famiglia, in fuga, nella notte, si ritrova a cercare nuove vie per uscire dall’angoscia, come quando si inoltra nel bosco per sfuggire al disastro, per poi tornare alla fila di station wagon di altre famiglie in fuga: poiché non si sfugge al problema. Quell’inquietudine è sempre lì, nonostante l’amore, nonostante la famiglia, nonostante il lavoro; anche se Babette per un attimo crede d’aver trovato la soluzione: il Dylar, un farmaco come panacea di allontanamento dall’idea della morte. 

Un film intellettuale

Una prima parte, prima dell’incidente tossico, forse troppo lunga, una seconda parte più scorrevole, il tutto segnato dallo stile di Baumbach che fa della pièce teatrale un suo uso al cinema, ritrovando a tratti delle atmosfere da Carnage di Polanski. È la mise en scene della vita quella che mettono in scena Jack e Babette. Argomentano costantemente le loro scelte, così come fanno i loro figli, in questa analisi della società molto intellettuale, razionale, e cervellotica, che non so quanto affine al romanzo di De Lillo, che non ho letto, ma sicuramente nello stile di Baumbach.

Ossessione per le cure mediche, per la medicina che toglie tutti i mali, molti punti di contatto con la realtà attuale post pandemia, sorprendente da questo punto di vista (il romanzo di De Lillo è del 1985), e anche una critica all’intellettualismo spicciolo (nella prima parte all’interno del college fra i docenti), anche se poi Baumbach è per certi versi perfetto emblema di quel mondo.

Un film intellettuale, in cui il regista, che è anche sceneggiatore e produttore, mescola drammatico, satirico, ironico: ci sa spaventare (l’incubo di Jack), ci lancia all’avventura (alla ricerca dello spacciatore di Dylar), ci disturba (con l’uso del suono nella prima parte legata all’incidente), con uno scopo, ed è forse questo il limite del suo racconto, un obiettivo che non centra del tutto.

Dopo Storia di un matrimonio, che aveva sempre come protagonista Adam Driver, suo attore feticcio – qui alla quinta collaborazione – e Scarlett Johansson, pellicola passata all’edizione del 2019 della Mostra del Cinema di Venezia, che aveva fatto guadagnare a Laura Dern l’Oscar come miglior attrice non protagonista, insieme alla candidatura a cinque premi, torna sullo schermo l’autore newyorchese nella terza collaborazione con Netflix.

Se il suo cinema non è esattamente my cup of tea, certo è che questo suo racconto di ricerca della serenità in un mondo incerto, in cui scardinare le certezze della società capitalista, minare il consumismo, è un buon film, con belle luci (Lol Crawley), belle musiche (Danny Elfman), buone interpretazioni: Adam Driver, in grado di dare delle gran belle sfumature, anche ironiche al suo Jack, e pure Greta Gerwig, alla sua Babette, con Don Cheadle in un ruolo che gli calza a pennello, e Lars Eidinger perfetto in quello dello spacciatore di Dylar. 

Un film “solo” da guardare?

Ma, come si dice nel film, quando entri in una stanza, c’è un patto, vai dentro a una situazione, non la ritrovi per strada, non ti ci imbatti per caso, quindi quando sei dentro ci devi essere con tutto te stesso. E, nel suo cinema, mio limite, personalmente fatico ad immergermi emotivamente, sto solo a guardare, forse perché spesso ci si parla un po’ troppo addosso, disquisendo sulle emozioni, ennesima difesa intellettuale a quel coinvolgimento emotivo che invece la realtà ti impone. Non attraversa il corpo ma si ferma alla mente. (S.G.)

Curiosità: DeLillo voleva intitolare il libro Panasonic (“La parola panasonic, divisa nelle sue parti costitutive — pan, dal greco, che significa “tutto” e sonic, dal latino sonus, cioè “suono” — mi sembra un titolo che suggerisce quella saturazione sonora assolutamente vitale per il romanzo…”), ma la corporazione giapponese Matsushita, proprietaria dell’omonimo marchio, non ha concesso allo scrittore il permesso di utilizzarlo.