X-Men: Giorni di un Futuro Passato è un film che supera il concetto di supereroe, una parabola morale che mette in guardia contro i pericoli del razzismo.
Torna alla regia Bryan Singer per questo incrocio tra sequel-prequel-reboot sul famoso gruppo di mutanti della Marvel Comics.
Già autore dei primi due film sugli X-Men e di Superman Returns, a causa del quale nel 2006 aveva abbandonato il completamento della trilogia mutante, possiamo dire tranquillamente che insieme a Zack Snyder (300, Watchmen, Man of Steel) è tra i migliori registi di film live action sui super-eroi.
Guardando su grande schermo questo capitolo, ispirato alla run omonima pubblicata dagli immortali Chris Claremont e John Byrne tra gennaio e febbraio 1981 su entrambe le testate americane dedicate ai mutanti, X-Men e Uncanny X-Men, è palese come il regista voglia premere l’acceleratore della paura da parte dell’uomo di ciò che è diverso e ignoto.
Tutti i comics e i film degli X-Men sono una parabola che si appoggia su queste tematiche profonde e significative. Il fim di Singer ne raggiunge il culmine, aiutato dalla trama estrema.
Non volendo spoilerare nulla, tutto quello che accade nel film scaturisce appunto dalla paura per la superiorità dei poteri mutanti rispetto alla debole umanità, quando poi sono proprio le debolezze umane a essere più potenti – e malvagie – della talvolta disarmante ingenuità e bontà mutante.
O almeno, di alcuni mutanti. Un futuro distopico, buio e apocalittico, come ci ha abituati la fantascienza del grande schermo da Terminator in poi, nel quale umani e mutanti arrivano quasi sull’orlo dell’estinzione a causa della follia di poche persone.
Il male e l’odio come propulsori per proteggere davvero a ogni costo il mondo dai diversi, con super-poteri o meno il discorso non cambia. Il viaggio nel tempo sarà la molla per tentare di cambiare il futuro e dirigerlo verso la speranza, la pace e l’integrazione.
Il vero protagonista di tutta la saga è il razzismo. In X-Men: Giorni di un Futuro Passato lo si può notare più smaccatamente nel più tosto dei mutanti con cui si deve venire a patti. No, non quello artigliato che fuma il sigaro e talvolta fa il buffone con la stessa nonchalance con cui uccide chi gli da troppo fastidio.
Parliamo di Magneto, sì lui. Michael Fassbender impersonifica alla perfezione l’odio con cui è stato trattato in passato. Quale miglior (o peggior) odio può nascere da una mente debole di un ragazzino ebreo strappato alla propria famiglia e rinchiuso in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale?
Diventa palese come possano essere pericolosi i poteri mutanti utilizzati per incanalare e focalizzare la folle rabbia verso un unico scopo: la vendetta. Capace di manipolare i campi magnetici e qualsiasi cosa abbia una piccola traccia di ferro in essa (come l’emoglobina con tenore di ferro accresciuto grazie al siringone di Mystica, in X-Men 2), Magneto è inarrestabile, è un Dio sceso in Terra.
Lo sguardo glaciale, vuoto, senz’anima di Erik Lehnsherr/Magneto parla molto più delle azioni di un piccolo scienziato folle e gretto che grazie alla sua invenzione per tenere sotto controllo i mutanti (leggasi eliminarli) scatenerà l’inferno sul pianeta.
Questa è l’essenza di quello che ci vogliono dire in primis Claremont e poi Singer: la paura del diverso ha da sempre causato le peggiori cacce alle streghe che l’essere umano abbia mai visto.
Al di là di qualsiasi super-potere, finzione o fantascienza. Gran bella parabola morale da non perdere. Per non dimenticare di che pasta è fatta l’uomo e per continuare a ricordarlo. Sempre.
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