Zan di Shin’ya Tsukamoto, la recensione di Matteo Strukul direttamente dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Avrei dovuto capirlo subito che stavo per assistere a un capolavoro. Quegli applausi sui titoli di testa, quelle urla di esaltazione che scuotevano la Sala Darsena avrebbero dovuto far squillare un campanello d’allarme, mostrarmi la luce, farmi intuire che, dopo questo film, niente sarebbe stato più lo stesso. Almeno sarei stato preparato.

E invece Zan del maestro Shin’ya Tsukamoto mi è arrivato come un treno in faccia. E la settantacinquesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia ha preso, per me, una piega inattesa e sconvolgente.

Tsukamoto… Chi era costui? Capofila del cyberpunk nipponico, il maestro giapponese – l’ho scoperto dopo – è un nome di culto fra gli esperti culturali del Sol Levante e gli amanti del grande cinema. Autore di pellicole seminali come Tetsuo e Tokyo Fist, autodefinitosi figlio di Cronenberg, già vincitore del Gran Premio della Giuria nel 2002 con A Snake of June e del Premio Orizzonti nel 2011 con Kotoko, proprio qui a Venezia, ossessionato da temi quali l’alienazione, l’identità, la pulsione sessuale, il rapporto uomo-macchina, Tsukamoto è fra i cineasti più incredibili del Giappone.

La sua visione di film è oltre il cinema tanto che non esito a definire questo suo Zan un’opera incredibile, un film in corsa per conto suo, un oggetto non identificato che potrebbe arrivare anche al Leone d’Oro proprio per il suo essere un mix estremo di genio e follia insieme.

Protagonista di Zan è Sosuke Ikematsu nel ruolo di un samurai senza padrone, cioè un ronin, che cerca di sopravvivere nel turbolento Giappone di metà Ottocento, quando il paese sta attuando una violenta e difficile transizione dal feudalesimo alla modernità. La coprotagonista – Yu Aoi – interpreta una giovane contadina del paese dell’eroe, vicino a Edo (la vecchia Tokyo).

Tsukamoto è regista, sceneggiatore, operatore e montatore del film, prodotto dalla sua società. Nel film interpreta un vecchio ronin, un maestro di spada che sta reclutando guerrieri.

Il film, che pure ha nel proprio nucleo un classico come lo scontro da parte dell’eroe, e del suo maestro, con una gang di pericolosi samurai ultra-violenti, sviluppa in realtà un tema affascinante e inedito come la paura da parte di un giovane guerriero di uccidere. Il tema viene portato alle sue conseguenze più estreme, tanto che anche la donna che lui, forse, ama, finisce violentata per via della sua totale incapacità a togliere la vita.

Tsukamoto gira dunque un film spiazzante, intriso di delirio, sospeso fra pulsioni sessuali represse, storie d’amore negate, sequenze d’azione dure, sporche, ipercinetiche che deflagrano improvvise in un delirio in puro steady cam style. Le musiche denunciano un afflato quasi wagneriano, conferendo epicità a una vicenda tutta divisa fra il dolore dell’eroe incapace di uccidere, la tensione amorosa della sua innamorata, la volontà del maestro di insegnare all’allievo l’arte di dispensare la morte.

Dal mio punto di vista, Zan è un film che cambia le leggi del cinema, che propone un anti-eroe completamente inedito e impreparato, per certi aspetti, che mette al centro la spada come simbolo, e causa, di una virilità quasi impotente. Completano questa storia cupa, nera, disperata alcune sequenze oniriche e inquietanti, giocate fra ombre, boschi neri, grotte allagate di fango.

Confesso che dopo una pellicola del genere, sento di aver trovato un maestro assoluto, un uomo che trasforma lo schermo in un’arena urlante, un regista in grado di darmi tutto quello che, sempre, avrei voluto trovare in un film di samurai: la paura, la morte, il senso d’inadeguatezza, l’isteria dettata dal fallimento, il confronto sporco, il metallo scintillante e che sembra urlare quando viene estratto dalle guaine.

Spero, lo dico senza tentennamenti, in un riconoscimento importante per questo film, magari il Gran Premio della Giuria. D’ora in avanti saccheggerò la filmografia di questo maestro assoluto.

Puro culto.