Zero Dark Thirty, l’ultimo lavoro di quella grande artista dell’immagine che è sempre stata Kathryn Bigelow, è un film potente e magnificamente riuscito

Zero Dark Thirty, l’ultimo lavoro di quella grande artista dell’immagine che è sempre stata Kathryn Bigelow, è un film potente e magnificamente riuscito. Impossibile essere avari con i commenti e con le parole, nei confronti della sublime, malinconica epopea scritta da Mark “The hurt locker” Boal e firmata con rara sensibilità ed intelligenza dall’autrice del classico “Point break”.

Il principale argomento sul tavolo è la gigantesca caccia all’uomo condotta dal governo e dai servizi segreti americani ai danni di colui che è stato il ricercato numero uno fino al due maggio 2011, e cioè lo stratega supremo delle stragi dell’undici settembre 2001, Osama Bin Laden.

La pellicola parte con un audio drammatico su sfondo nero, nel quale, attraverso le parole delle vittime sacrificali, risuona orrendo tutto il lugubre dolore di quell’immane tragedia. Quando la luce torna in sala, lo fa per illuminare i predatori in azione, focalizzandosi subito sui durissimi interrogatori condotti dalla CIA sui sospetti terroristi.

Zero Dark Thirty

La storia ha un incipit forte, un coltello affilato premuto contro la giugulare del male. Nessuno sconto, nessuna pietà: il rispetto per lo spreco di vite innocenti non richiede, mai, niente di meno.
Il grande problema, umano più che etico, è che i primi caduti della lunga manhunt non sono né i diritti civili, né le regole della democrazia, ma gli stessi cacciatori. Gli impersonali strumenti del sistema, sfruttati, fino a spolparne il midollo dell’anima, per la riuscita di una strenua ricerca che dev’essere un forzato, preteso successo ad ogni costo.

La disumana inquisizione necessaria a lavare col sangue la vergogna di tremila morti incolpevoli richiede, infatti, esecutori spietati e pronti a tutto.

Loro, i cacciatori, sono i soldati in prima linea, che saltano in aria dilaniati dai kamikaze del nemico. E sono anche i pungoli, insistenti e scomodi, di una nazione che fatica a farli tacere, a rimetterli a cuccia, una volta attivati come feroci mastini incollati alle caviglie della preda.

Jessica Chastain è una splendida Maya, giovane agente CIA catapultata al fronte della guerra al terrore, una dirompente bomba di recitazione che si attiva in sordina per deflagrare con la sua devastante classe nella seconda parte del film.

Ogni suo gesto, espressione, parola, o lacrima, produce un rumore assordante, un rumore che resta a lungo nella mente e negli occhi dello spettatore, generando riflessioni ed emozioni capaci di radici profonde e non banali.

Zero Dark Thirty

In dieci anni cambiano le amministrazioni, i presidenti, i metodi degli interrogatori, e cambiano ovviamente anche i nemici del Paese. Quello che, invece, non cambia mai è la dignità dell’obiettivo più alto di uno Stato.

Il sangue, infatti, può essere versato per tanti di quei motivi da perderne facilmente il conto. E la politica ha tanti di quei padroni che è come se fosse la donna di tutti e la figlia di nessuno. E’ la vendetta dell’eroe l’unica cosa che rimane sempre fedele a sé stessa, calando severa sui malvagi per spazzare via il dramma di troppe morti immeritate.

La vendetta del giusto, come quella di Maya, che con il suo lavoro vendica le famiglie ferite dalla follia islamista di un maledetto, indimenticato ed indimenticabile undici di settembre.

Il bellissimo personaggio di Jessica Chastain, con rabbia scossa dal dolore, è il quotidiano tormento dell’imbelle, calcolatrice ignavia del potere che, dopo tanti anni, quasi non sente più come una sua necessaria urgenza l’uccisione dell’assassino, il cappio da stringere al collo dello sceicco del terrore.
Una volta nascosti sottoterra, i morti non interessano più a nessuno. I vivi, e i loro governanti, vogliono pensare ad altro.

Maya non può farlo. Glielo impone il suo ruolo di eroina non allineata, di quasi superflua, anacronistica coscienza civile della propria gente.

Maya non si ferma. Non si può avere una vita, una vita piena e vera, finché non si è almeno provato a lenire le storture del (nostro) mondo sbilenco.

Ma nessuna buona azione rimane impunita, il sogno americano non ama regalare nulla a costo zero. Il prezzo del successo si traduce in isolamento, in infelicità, e in una gloria che brilla nella penombra, messa all’angolo dall’ingombrante oscurità dalla quale la vita si è lasciata sopraffare e avvolgere, nella quale si è voluta nascondere.

Zero Dark Thirty

Nell’era della modernità, la lotta contro il male, multiforme, camaleontico e sfuggente, ha come ricompensa ultima lo straniamento del vincitore, lo svuotamento di significato del suo pur grande trionfo, e un sacco per cadaveri appesantito dal corpo martoriato di un altro essere umano come bottino amaro.

“Siamo tutti svegli.”, come dice Leon Panetta, direttore della CIA interpretato dall’ex-Tony Soprano James Gandolfini. Se questo è vero, allora è il nostro cuore di uomini che dorme, da troppo tempo, un sonno di cui non si intravede la fine, mentre la nostra coscienza, individuale e collettiva, continua a non dare significativi segni di vita.

In Zero Dark Thirty, la vittoria della luce sulle tenebre si concretizza in una spettacolare e chirurgica operazione segreta del SEAL Team Six, una partita notturna ai confini dell’inferno dove la violenza indirizzata ai bersagli giusti è il salomonico spartiacque tra il bene e il male.

E quando l’eroina arriva alla fine del viaggio, consumata dal peso di quel solitario fardello chiamato giustizia, le mille strade verso il domani, aperte fino ad un momento prima, scompaiono come ingannevoli parole vuote scritte sulla sabbia.

In un mondo di volgare, animalesca ferocia, un mondo smemorato ed egoista, la conclusione dell’epica odissea dell’eroe, o eroina che sia, ha come significato ultimo lo smarrimento della via di casa.

Sul grande aereo militare che deve riportare da qualche parte, dovunque lei voglia, la vittoriosa Maya, il suo viso stanco, solcato da vigorose lacrime esauste, è ancora più bello.

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