Gangster squad di Ruben Fleischer è una delle più cocenti delusioni della stagione cinematografica in corso.
Certo, precedenti illustri come il classico Gli intoccabili di Brian De Palma o l’ottimo L.A. Confidential di Curtis Hanson potevano far legittimamente tremare i polsi alla maggior parte dei registi.
D’altro canto, Zombieland, la sua intelligente parodia del mondo dei sopravvissuti ai non morti, lasciava invece intendere che Ruben Fleischer sapesse maneggiare un materiale tanto scottante con la giusta sicurezza.
Così non è stato, e per giunta da entrambi i punti di vista. Fleischer, mal supportato dalla maldestra sceneggiatura di Will Beall, affronta la storia della lotta al gangster Mickey Cohen con mano sicura e senza alcun timore reverenziale, finendo fuori strada tutto da solo, divertendosi a ribaltarsi rovinosamente un numero incalcolabile di volte, alla maniera delle auto d’epoca che si vedono nel film.
Così come l’autore di Zombieland le aveva indovinate tutte nell’ironizzare sulla cronica disperazione apocalittica del genere consacrato nei secoli da George A. Romero, così, al contrario, non ne indovina davvero una, o comunque poche, nell’approcciarsi al genere gangsteristico.
Il plot si incentra sulla task force che il capo della polizia di Los Angeles decide di creare per dare la caccia al boss Mickey Cohen e tentare di smantellare l’organizzazione criminale che si sta impadronendo, un dollaro alla volta, della città degli angeli.
Le assonanze con De Palma o James Ellroy finiscono purtroppo qui. Fleischer applica il suo stile visivamente elegante e registicamente sbruffone anche allo scontro con il crimine organizzato degli anni quaranta, ma il giochino non funziona.
Bastano i primi minuti del film per rendersene conto. I gangster non sono gli zombie che davano il tormento a Woody Harrelson e Jesse Eisenberg nella pellicola del 2009. Certo, anche loro sono morti, nei valori e nell’anima, insieme ai cosiddetti cittadini onesti che, nella Los Angeles del dopoguerra come nelle città dei giorni nostri, vengono a patti e godono dei servizi offerti dalla mafia. Gli altri, ufficiali walking dead restano però altra cosa.
Qui, l’ironia scanzonata e i toni guasconi girano a vuoto, come la fotografia patinata alla Dick Tracy, che più che creare atmosfera sa di vecchio e basta.
Lo script di Will Beall lascia quantomeno perplessi, nella sua incapacità di creare un intreccio che sia un minimo credibile o appassionante – con battute, quelle sì, criminali, per la loro ridicola banalità – e nel suo disinteresse totale al tratteggio di personaggi di spessore.
Il cast è stellare, ma nessuno dei vari Josh Brolin, Ryan Gosling, Nick Nolte, Emma Stone, Robert Patrick, Michael Pena, Giovanni Ribisi o Anthony Mackie, riesce a smuovere vero interesse nello spettatore attonito da tanta banale, trita pochezza.
Il lungo elenco dei nomi degli interpreti aiuta a dare un’idea dello spreco in termini di potenziale recitativo che si è permesso il film, con una disinvoltura francamente incomprensibile. Appena accettabile il Mickey Cohen del grande Sean Penn, che qui si distingue un po’ solo perché attorno ha il deserto.
Gangster squad è un lavoro noioso e superficiale, che non si riesce a capire dove voglia andare a parare. Non diverte, non coinvolge, non indigna, se non per la sua bruttezza.
Il tema è quello di un manipolo di uomini coraggiosi e integerrimi, che combattono per un mondo migliore da lasciare ai propri figli, nella speranza che non si possa e non si debba versare sangue solo per la difesa di interessi economici o per le proprie ambizioni di potere.
Una task force di amici e di fratelli che si scontra con un mondo, passato e vintage, e tanto, troppo simile al nostro di oggi, che se ne frega dei principi e degli ideali a meno che non abbia qualcosa da guadagnarci.
Certo, non si può chiedere al cinema made in USA un capolavoro ogni volta che sceglie il genere poliziesco. Ma un film un po’ meno sciatto di questo, magari anche sì. Dovrebbe essere il minimo in qualunque sindacato.