Intervista a Marco Monari a cura di Elisa Gianola per Sugarpulp Magazine

Qualche giorno fa ho intervistato Marco Monari, uno dei più interessanti esponenti della fotografia padovana. È stato un incontro piacevole e molto istruttivo. A Padova la correlazione tra fotografia, arte e territorio è confusa e spesso non è di grado di fornire un quadro schietto e incisivo.

Credo che Marco, grazie ai suoi lunghi lavori di ricerca e alla voglia di condivisione, sia in grado di dare una chiara svolta all’attività fotografica del territorio. Lo scambio di opinioni e l’apertura alla sperimentazione sono la chiave dell’evoluzione.

Marco, cos’è la fotografia?

Semplice, è un modo di esprimersi che diventa un gioco per vivere meglio. Ho la fortuna di fare quello che sognavo di fare, in questo contesto è molto facile divertirsi.

Quand’è che la fotografia si trasforma in arte?

Nel 1839, non si è mai trasformata, lo è sempre stata. Ed è l’arte più difficile. Al di là degli attacchi sul tecnicismo e la producibilità, in 170 anni la fotografia ha avuto un’evoluzione dirompente (ricordiamo solo negli ultimi anni la nascita del digitale, delle applicazioni del cellulare ecc), diventando una commistione di costume, tecnica ed espressioni senza eguali. Non ho una parola per l’arte e la creatività. È sbagliato coccolare questo mondo quando comunque devi declinarlo in altro (collaborazioni, sponsor). Hai semplicemente un modo di ragionare che può essere apprezzato o meno.

Parliamo delle tue mostre fotografiche. Il filo conduttore è il rapporto col pubblico: esperimenti criptici lasciati alla libera interpretazione del lettore. L’uso del colore e la dimensione minimale del soggetto mi ricordano il plasticismo olandese di Mondrian. Una sorta di schiettezza criptica. Ti ci ritrovi in questo genere di visione? La frammentazione del soggetto per lasciare al lettore la libertà di ricostruirlo?

È un risultato schietto. Non sono più in grado di fare foto di reportage. Io scrivo, disegno e penso prima di scattare. Ogni scatto è ponderato e raccoglie al suo interno molti processi di ricerca che, ovviamente, portano a risultati ben delineati. Se il pubblico le capisce, bene. Altrimenti, beata ignoranza. Ci sono lavori che porto avanti da diversi anni.

Ad esempio c’è n’è uno che sto progettando da 5 anni: diecimila ritratti fatti per strada, a persone con o senza testa, a seconda che portino magliette logore o marchiate. Le esporrò in un pallet sottovuoto così le foto non si vedranno, saranno solo tanti pacchetti suddivisi con metri matematici che usano i macellai. Le foto saranno come carne da macello, l’uomo è carne da macello. I miei lavori sono criptici ma partono la lontano. Sono progetti lunghi e il cripticismo denota, per l’appunto, la componente della ricerca.

Nei tuoi esperimenti hai spesso mescolato varie forme d’arte. La fotografia per te è centralità o può essere considerata un ingrediente di qualcosa di più grande?

Non è centrale, è centrale come forma mentis per me, chiunque mi stia attorno deve convivere quello che io vivo per la fotografia. È centrale nella mia vita ma non è centralistica. L’evoluzione ha cambiato il mondo della fotografia, puoi fare quello che vuoi grazie al confronto. Nella mostra Che dire hai fatto esplodere la realtà, che però realtà non è, sono rappresentazioni della realtà. Questo mi ricorda un grande artista chiamato Magritte, e la sua famosa pipa. Fino a che livello arriva l’esplosione? Realtà o rappresentazione (sociale) della realtà?

Passati i periodi delle molotov una persona fa esplodere la rappresentazione della realtà. Tutto sommato le cose che mi danno fastidio sono proprio quelle che fanno vivere bene. Che diritto ho io di togliere il contentino che fa stare bene? Loro vivono bene, ma sono tristi per me. Sottolineare certe cose che a me danno fastidio è un modo per fare aprire gli occhi. È una presa di coscienza impotente. L’interesse è che una persona con dei metri di espressione riesca a giudicare il mio lavoro. Nel fastidio c’è metodo di comunicazione.

Nella mostra Fisiognomica sperimenti la potenza dell’impatto visivo e degli stereotipi sociali che ormai non necessitano più di una personalità. Ti senti una caricatura?

No, il fotografo ha una grande fortuna. Sia in output che in input ha un filtro, la macchina fotografica. Quando fotografi devi essere indiscreto. E di colpo la macchina fotografica diventa una cravatta. È una tua maschera, è un tuo feticcio. Per me è talmente un’abitudine che non me ne rendo conto. L’aspetto caricaturale arriva dall’esterno e non dal singolo fotografico.

Nei tuoi lavori ho notato un tipo di denuncia sociale più tecnica che emotiva ma che, proprio grazie alla sua schiettezza quasi matematica, riesce ad avere un impatto molto più intenso.

Quello mi che interessa è dire le cose che penso. E dare dei dati. Io dico: “Esistono queste realtà. Dobbiamo trovare un metro acuto per dire che queste realtà esistono”. Paradossalmente non mi interessa fare le foto come atto in sé, ma avere la possibilità di analizzarle. È un messaggio leggero. Non ci può essere supponenza. Io non dico che ho ragione, dico che queste realtà non mi piacciono. C’è un passaggio molto importante nei miei lavori: tutta la parte dedicata all’allestimento delle mostre.

Ad esempio, per ogni mostra creo 100 cataloghi numerati, in originale fotografico. In questi cataloghi il pubblico è in grado di sperimentare personalmente i concetti chiave della mostra. In Che dire, la mostra con le foto esplose da petardi, potevi tu stesso far esplodere il catalogo con un vero petardo inserito dentro. Ti porti sempre a casa delle opere originali. Magari non te ne frega un cazzo della mostra, però magari compri il catalogo col petardo. E magari ci pensi.

Nella mostra Architetture Umane il territorio e l’uomo creano un gioco di conflitti, repulsione e necessità, esorcizzazione. Credi che l’uomo si stia allontanando sempre di più dal matrimonio con l’ambiente che lui stesso ha creato?

Secondo me l’uomo del suo ambiente non gliene frega un cazzo, c’è un totale disinteresse verso il territorio. Il vivere, l’orto, la gita fuori porta. Milioni di persone nei giorni festivi preferisce andare all’Ipercity piuttosto che organizzare una gita ai colli, ad esempio. Non esiste più l’attenzione al territorio, al vedere come sta cambiando, macroscopicamente. È un valore perso, l’uomo non riesce più a coglierne l’importanza ed il rapporto che ha con esso. È una fortuna che il fotografo possa esprimere la propria idea di territorio; diventa un valore quasi fondamentale. Nessuno guarda, nessuno osserva. Tutti distruggono.

Parliamo del progetto didattico Trasformazione del territorio. Quali ambienti sono stati analizzati e cosa, per ora, ne è uscito? Cos’è che osserviamo senza guardare?

Noi non guardiamo perchè ci sembra tutto naturale. Il punto di partenza del progetto didattico è il fotografo Atget. Nel 1900 scattò migliaia di foto sull’architettura e i soggetti cittadini di Parigi, che fornì poi a pittori, disegnatori e architetti per avere una chiara idea del territorio e svolgere il loro lavoro. E lo fece per una tazza di minestra. Le sue opere ora sono esposte al Louvre. Atget creò un progetto basato sulla quantità, ed è quello che sto portando avanti coi miei studenti. Un grosso quantitativo di materiale fotografico che documenti la realtà del territorio per quella che è. Avete idea di quanti metri di recinzioni esistono nel nostro territorio? Sono dati che lasciano senza fiato. Ma questo è ciò che la gente vuole.

Il parallelismo con Parigi è Marcon. Marcon non è una città, è una serie di capannoni e centri commerciali. Le persone trascorrono i loro fine settimana dentro enormi spazi chiusi e continui. Giganteschi edifici, uno dietro l’altro. Ma è questo che vuole la massa. Non posso e non voglio educare la massa. Io, semplicemente, non ci vado. Tuttavia, le recinzioni e Marcon restano un dato di fatto. Una fotografia di quello che vogliono le persone dal territorio. Questo progetto e in generale l’attività didattica mi hanno dato molto. Durante i corsi vengo a contatto con una massiccia quantità di persone. Io insegno ma contemporaneamente ho 400 occhi che insegnano a me. Solo loro, gli studenti, che mi insegnano l’evoluzione.