Logan spakka! Semplicemente, il miglior film tratto dall’universo MARVEL. La recensione di Matteo Strukul per Sugarpulp MAGAZINE.

Ragazzi che bomba! Non me l’aspettavo! Non me l’aspettavo per nulla ma Logan spakka. Avevo anzi preso il biglietto con l’accredito “pro” alla Berlinale, con un senso di vaga speranza e smarrimento insieme, temendo la solita baracconata Marvel – o DC – con un regista con quattro quarti di nobiltà artistica, James Mangold, che si piega alle esigenze di produzione e partorisce la porcata.

Invece… invece dovevo capirlo subito che non sarebbe stata la solita noce e che sarebbe arrivato il film che azzera tutto quello che sapete o pensavate di sapere sui supereroi. Ed è una gran soddisfazione pensare che invece di finire tritato dal meccanismo – vedi David Ayer e Suicide Squad ma gli esempi potrebbero essere infiniti – Mangold fa proprio l’opposto: è lui a masticare e risputare fuori gli automatismi e i tricks del cinecomic per concepire e mettere in scena una storia nera, un racconto che si dibatte come un animale ferito fra crime e romanzo apocalittico di formazione, narrando nel modo più feroce e impietoso il grande ciclo della vita.

Dicono che Mangold lavorasse a questa storia da anni, di certo l’ha preparata con cura, destrutturando i cliché e i superpoteri già con il precedente e più che decoroso Wolverine – L’immortale ma quello era un esperimento riuscito in parte.

Così, quando mi siedo nella poltroncina elegante e comoda del FriedrichsPalast, a Friedrichstrasse nel centro di Berlino, allo spettacolo delle 15, con il cinema murato di spettatori – una costante della Berlinale e del modo in cui, più in generale, i tedeschi accolgono la cultura dato che solo pochi istanti prima avevo visto una coda infinita in strada per assistere a uno spettacolo teatrale presso l’AdmiralsPalast – sono davvero poco convinto. Ma non appena la proiezione parte, capisco che non ce ne sarà per nessuno fin dal primo secondo.

Perché non ho mai visto nulla di più ruvido, sporco e scarno di questo Logan, nulla capace di catturare l’essenza del personaggio dell’Arma X canadese in questo modo. L’idea di spostare l’azione in un futuro leggermente distopico, lasciando ai mutanti una semplice ombra dei superpoteri che furono, e dandogli gli anni che hanno, che sono quelli della generazione di spettatori che è cresciuta con loro, è tanto semplice quanto geniale.

Jackman non ha più un fisico scolpito e perfetto, anche se resta impressionante, il suo volto reca i segni di un’età che lo rendono più maturo, umano, credibile. La sua recitazione va a mille, arricchita da uno spessore e una profondità che non indulge mai nell’autocompiacimento ma che anzi è tutta al servizio di questo personaggio nero, crepuscolare, violento, rozzo e feroce e che amo alla follia – e non sono l’unico – con in più tutti i dolori e la malinconia dell’età che avanza e del tempo che scorre come l’acqua fredda di un fiume: inesorabile.

Vi risparmio la trama perché in sé non è nulla di meno e nulla di più di un grande classico: l’antieroe che deve proteggere una bimba speciale. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, ma è proprio qui che sta il colpo di genio.

Insomma, avete presente i concetti già brillantemente espressi in film come Dark Knight di Nolan e Watchmen di Snyder? Solo che qui si va addirittura oltre per certi aspetti. C’è tutta la malinconia e la commozione per un personaggio che farà di tutto per sottrarsi a un destino già scritto, l’ineluttabilità, che poi è l’essenza stessa del noir.

E qui mi piace citare il mio vecchio amico Victor Gischler, a proposito dei rapporti fra noir e western. “Quando l’uomo bianco non trovò più una frontiera da conquistare, con il ferro delle armi e il sangue versato dalle vittime, fu costretto a guardare dentro il ventre molle di ciò che aveva costruito. E quello che vide lo sconvolse. Così dal western nacque il noir”. È una definizione magnifica. E capace di rendere come meglio non si potrebbe quanto intimamente legati siano questi due generi narrativi. Logan ha anche molto del western infatti. Con sequenze che ricordano certi duelli all’ultimo sangue de Gli spietati e un inseguimento che ha sprazzi di Mad Max: Fury Road che dal western mutua tantissimo.

Ma c’è anche e soprattutto una recitazione incredibile, da parte di Jackman, certo, ma anche di Patrick Stewart che interpreta un professor Charles Xavier tormentato e sull’orlo della morte, tenuto in vita quasi per miracolo proprio da Wolverine. Eppure mai così saggio e arreso alla fine, in grado di raccontarci la vecchiaia, la maturità, con una malinconia e una profondità più uniche che rare. E che dire, per contro, della piccola Dafne Keen, dal viso tenero, dolce eppure pronto ad accendersi di determinazione e rabbia quando le toccano qualcosa cui tiene? E con un passato che nessuna bimba dovrebbe mai avere?

Ed è proprio qui che il film vince: nel confronto a tratti crudele fra generazioni, nel senso di paternità latente di un personaggio che tutto sembra tranne un genitore, nell’infinita carica umana che Logan riesce a esprimere attraverso una disarmonia di opposti. Violenza cieca e ruvido affetto che nel finale si fondono in una tenerezza assoluta.

Un film adulto che parla a donne e uomini. Eppure un action movie che riesce a spiegare il senso della vita anche ai ragazzi. C’è un evidente passaggio del testimone e un senso di fatalità che ti mette in faccia tutta la sublime e triste bellezza delle pagine che girano, del corpo che cambia, della fine che arriva. Non ci puoi fare niente. Solo vivere il tempo che hai con tutta la passione e l’amore che riesci a trovare nel cuore del piccolo uomo o della piccola donna che sei.

Alla fine il film è tutto qui. Ed è magnifico.