MARIA, la recensione di Silvia Gorgi del film di di Pablo Larrain con Angelina Jolie presentato in concorso all’81a Mostra del Cinema.

Nella prima scena del film MARIA di Pablo Larraín, Angelina Jolie guarda dritto in camera e canta il brano di un’opera, ma più che emettere la voce sembra mimarla, muovere le labbra mentre, in lontananza, s’ode la voce della Callas: una fusione a freddo che lascia attoniti. O, per meglio dire, si ha la sensazione non di essere di fronte alla divina Callas, ma, ancora, alla diva Angelina.

Dopo cotanta apertura, pian piano la situazione migliora, il film cresce e prende forma il cinema di Larrain, nella cifra con cui si è definito negli anni: la ricerca formale, la ricostruzione degli ambienti e dei costumi, è rigorosa, anche se, tutto il resto, rimane asettico, senza sentimento, né passione.

Angelina Jolie non convince

Inutile dire che il punto debole restano le scene in cui la Jolie impersona la Callas nell’atto del canto, siano esse le prove, le esecuzioni formali in teatro, o le esercitazioni a casa. Il suo corpo non prende forma con le parole. Quando si canta, in particolare se si fa lirica, la voce prende spazio per portare il suono lontano, mentre nel viso di Angelina le parole restano piatte, schiacciate sul volto.

Eppure l’attrice ha dichiarato di aver fatto pratica di lirica per entrare nella parte per ben sette mesi, e Larraín ha precisato che c’è anche la voce della Jolie nelle registrazioni, ma in una scena, in particolare, quella finale, ci sono attimi in cui il labiale non è in sincrono.

La divina

Maria, nei suoi ultimi giorni, viene rappresentata come una donna che sa di essere stata sul palco la Divina, un po’ dispotica, un po’ persa nell’uso del Mandrax, un farmaco antidepressivo, a volte in preda alle sue visioni (nel racconto con il giornalista), ma sempre tutta d’un pezzo, fredda, molto fredda.

A supportare Angelina in questo biopic i due attori italiani Francesco Favino e Alba Rorhwacher, maggiordomo e cameriera italiani. È anche grazie a loro, che la pellicola si risolleva, in particolare a Favino, nei panni di Ferruccio; le loro interpretazioni puntellano e rafforzano la performance della Jolie.

Si inizia dalla fine

Ambientato nel 1977, il film inizia proprio con la morte della Callas, il 16 settembre, nel suo appartamento parigino. E lì si tornerà alla fine, solo che prima lo spettatore trascorrerà insieme a Maria i suoi ultimi giorni, fra flashback legati al passato e la vita quotidiana del grande soprano, che si isola dall’esterno e, nella sua casa, viene protetta e accudita dai fedeli Ferruccio e Bruna, alla ricerca di quella voce che non è più perfetta come un tempo.

Siamo sulla scia dei precedenti lavori di Larraín cui si è dedicato per raccontare la parte intima di grandi icone femminili, come Spencer su Lady D, interpretato da Kristen Stewart, e Jackie, con Natalie Portman, nei panni della Kennedy.

Come a chiusura di un cerchio se lì JFK non appariva mai, qui invece si materializza in un incontro fra la Callas e il Presidente, uniti dallo stesso destino, quello di essere stati traditi dai loro partner amorosi. Biopic anticoncezionali, che hanno portato anche questa volta, il regista cileno in concorso a Venezia – lo scorso anno era presente con EL CONDE, premiato per la migliore sceneggiatura – che alla Mostra è stato scelto per ben sei volte.

Una visione molto anglosassone

Il film sembra pensato per un pubblico anglosassone, visto che l’autore sceglie di usare un’unica lingua, l’inglese, invece che utilizzare più idiomi, ad esempio quando gli interpreti sono entrambi greci, come nel discorso fra le due sorelle, o fra Maria e Onassis, quando lo conosce o quando è in fin di vita, o ancora l’italiano con i suoi domestici, o il francese nei caffè che frequenta, visto che la cantante, nella vita reale, parlava correttamente cinque lingue, e sapeva perfettamente l’italiano, essendo l’Italia la sua seconda patria.

La biografia della Callas viene raccontata attraverso alcuni momenti, non i più grandi, i meno esposti, come il primo incontro con Onassis, pochi minuti, in un evento organizzato da lui dopo un’opera, in cui l’armatore e imprenditore, ottimamente interpretato da Haluk Bilginer, le dichiara che finirà per stare con lui – mentre il marito, Giovanni Battista Meneghini, è l’attore veneto Alessandro Bressanello – poiché lui si è invaghito di lei, o quando sarà in fin di vita, o ancora quando Maria incontra la sorella (Valeria Golino) e ritorna il loro passato.

Bella la sequenza di Maria giovane (molto convincente l’attrice che la impersona) che viene offerta dalla madre ai soldati nel corso della guerra, ma che con la sua voce si salva da un destino diverso. Maria non amava i genitori, e rischiò di essere avviata alla prostituzione dalla madre. Episodi che sembrano essere ispirati dal libro Cast a Diva: the Hidden Life of Maria Callas (uscito nel 2021), della storica britannica Lyndsy Spence, una biografia investigativa che approfondisce i blocchi psicologici della cantante, analizzati per capire cosa ci fosse dietro all’icona della lirica.

Regia asettica

Nella pellicola di Larraín, pur inseguendo la drammaticità della vicenda umana della cantante, l’asetticità regna sovrana, e pervade tutto di una patina elegante, a discapito del pathos. Angelina-Maria dice: “nell’opera non c’è ragione c’è solo passione”, ma in questo lavoro la passione non trapela, e la Maria di Larrain ha ben poco a che fare con quella Callas che viene fatta vedere in alcuni fotogrammi, la vera Callas, nei titoli di coda: viso di grande espressività, verve, attitudine.

La Jolie di sicuro farà vendere il film in tutto il mondo, e magari potrebbe intraprendere anche una via per arrivare all’Oscar, ma prendendo a prestito il titolo di un’opera Goffredo Parise: “l’eleganza è frigida”.