Benvenuti a Raccoon City. Una ricostruzione della ricca saga Resident Evil in vista della prossima uscita cinematografica.

È atteso prossimamente al cinema Resident Evil: Welcome to Raccoon City, che racconterà in maniera puntuale le radici della lunga e complicata vicenda alla base della saga Capcom (Resident evil, o Il cattivo ospite / Biohazard, o “Rischio biologico).

Di origini giapponesi, le sue peculiarità e longevità risiedono nel coniugare fantascienza, senso del terrore e un’ambientazione dapprima americana e poi internazionale (come spesso fatto anche da Konami). Si pensa spesso che l’iperrealismo sia di matrice statunitense, ma anche e soprattutto i giapponesi moderni hanno saputo dare vita a forti simbolismi, forse proprio per via della contaminazione americana avvenuta alla fine dell’Ottocento.

Il medium di trasmissione è quantomai sfaccettato, tra risalenti videogiochi di genere survival, e a seguire fumetti, romanzi (gli ottimi testi di Stephani Danelle Perry), rifacimenti videoludici moderni, anime giapponesi in computer-grafica e sei film (due trilogie con la nota attrice Milla Jovovich).

Il cattivo ospite

La trama originaria si caratterizzava per un forte utilizzo della suspense, del mistero e del non detto: si intuiva la presenza di una catastrofe biologica, ma l’incipit dei primi episodi della saga era costruito come un romanzo poliziesco sovrannaturale, con forti ricorsi al paradosso e a un gusto estetico volutamente eccessivo.

Si pensi al topos letterario dell’antica magione (la Villa Spencer), ove era possibile provare quel lieve e ubriacante torpore dato da arredamenti sontuosi, manufatti, epistolari interrotti a metà. La frequentazione di stanze e corridoi, con evidenti richiami a La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe, consentiva di immaginare l’incombente presenza di un deus ex machina, il sinistro imprenditore o lo scienziato pazzo che si era spinto oltre ciò che l’umano intelletto dovrebbe consentire.

Stesso dicasi per il secondo e successivo capitolo, in cui si raccolgono le forze dei protagonisti attorno a una stazione di polizia, che funge per un verso da barricata, per un altro da squallido simulacro di un altro momento storico, tra corruzione comunale e fasti inutili.

La Raccoon City descritta, infatti, è una piccola città industriale, di circa centomila abitanti, situata sulle Montagne Arklay, scenario fittizio ideato dagli sceneggiatori e dai designers del gruppo. Qui si innestano, a catena, tutte le azioni da ricondurre a una multinazionale senza scrupoli, la Umbrella Corporation, contrastata dal gruppo S.T.A.R.S. (Special Tactics and Rescue Service) e da uno sparuto gruppo di personaggi (Leon Scott Kennedy, Claire Redfield, ecc.), attorno al quale è stato costruito tutto il carisma eroico che contraddistingue questa saga, particolarmente amata dal pubblico (un pubblico per certi versi cresciuto, dal momento che il primo titolo risale al 1996) e al contrario avversata dalla critica specializzata e soprattutto cinematografica.

Quando il grande cinema viene frainteso

I titoli usciti al cinema, infatti, sono sei, blockbuster quasi tutti diretti dal regista inglese Paul W. S. Anderson, e hanno visto la loro conclusione con il capitolo finale (The final chapter) nel 2016.

Una saga particolarmente vivida nei toni narrativi, nella cadenza degli eventi e nella teatralità dei suoi personaggi, quasi tutti appartenenti all’originale cast della Capcom e interpretati da molti attori di assoluto rilievo (Iain Glen, la citata Jovovich, Wentworth Miller, Sienna Guillory, Michelle Rodriguez, James Purefoy, ecc.) e che attribuiscono la giusta verve o simpatia alle controparti videoludiche (la Alice protagonista è sintesi della bambina prescelta presente in molti episodi, Albert Wesker l’antagonista che addirittura riesce a farsi beffe della fine del mondo, Isaac il brillante e malvagio creatore – un simil Birkin? E così via).

Più pedissequi sono invece i tre lungometraggi televisivi, che fanno chiarezza didascalica circa gli avvenimenti della serie principale (Degeneration, Damnation e Vendetta, ultimo film del 2017). Di recente produzione Netflix è invece l’ottima miniserie Infinite Darkness, intrigo internazionale e bellico che vede Leon e Claire indagare sullo stress post-traumatico dei soldati (come nel classico Allucinazione perversa), sulla corruzione e sulla sperimentazione militare, sull’infinita oscurità (da titolo) che sembra essere scesa sul mondo. Come a dire: accaduta la tragedia iniziale, è difficile riprendersi.

Il pop e il pulp sono sempre sociologici

Come nel 1996 Resident Evil seppe anticipare l’orrore dato dalle pandemie (l’impatto estetico di strade buie o deserte), questo Infinite Darkness getta un intelligente e anticipatorio cono di luce sulla guerra civile mediorientale (è uscito pochi mesi prima della crisi afghana, benché ambientato nell’immaginaria nazione del Penamstan), ove si possono mischiare cattive intenzioni politiche e la famigerata guerra batteriologica.

Resident Evil non è né mai sarà un riferimento da salotto, ma ancora una volta i fenomeni culturali si manifestano spontaneamente e divengono attrattivi in virtù della loro forza: elegante o splatter che sia, come fruitori oppure operatori culturali bisogna sempre accoglierli con entusiasmo.