Hacksaw Ridge, la recensione di Corrado Ravaioli per Sugarpulp MAGAZINE del film che segna il ritorno in grande stile di Mel Gibson.

A dieci anni di distanza dall’ultima regia, Hacksaw Ridge segna il ritorno in grande stile di Mel Gibson. Ho letto che il buon Mel si è innamorato del protagonista di questa storia vera qualche tempo fa. È difficile restare indifferenti di fronte a un piccolo grande eroe come Desmond Doss, giovane soldato che durante la seconda guerra mondiale guidato da una fede incrollabile salvò numerosi commilitoni durante l’assalto ad Hacksaw ridge, sull’isola di Okinawa.

Doss aveva una caratteristica peculiare, che ha folgorato il regista: ispirato dai principi della chiesa avventista, di cui era fervente seguace, decise di arruolarsi per dare un senso alla propria vita, seguendo l’esempio dei suoi coetanei. Ma a differenza degli altri, e contravvenendo alla legge marziale, scelse di non toccare le armi. La sua missione, intesa proprio in senso religioso, sarebbe stata quella di aiutare i compagni, curare ciò che la guerra distrugge.

Il film sembra suddiviso in tre atti: il primo introduce il personaggio, e gli anni della formazione in un difficile contesto familiare. Il padre è un veterano della prima guerra mondiale, con problemi di alcol dovuti a quello che oggi verrebbe definito disturbo post traumatico da stress. La madre, costretta a subire i violenti sfoghi del marito, si rifugia nel conforto della Chiesa. L’unica spalla di Desmond è il fratello, che per primo deciderà di arruolarsi contro il parere dei genitori, influenzando forse anche la scelta del protagonista. In questa prima parte scopriamo il carattere sensibile e generoso di Doss, e il suo primo grande amore.

La seconda parte è dedicata all’addestramento, con alcuni momenti tipici del cinema di genere, da Full Metal Jacket in poi. La conoscenza dei commilitoni attraverso una caratterizzazione accennata ma efficace, le esercitazioni e infine gli scontri con i superiori, che faranno di tutto per spingerlo fuori dall’esercito, dato il rifiuto delle armi. La sua scelta viene vista non solo come scellerata (come fai a difenderti dal nemico che ti vuole morto, se non hai un’arma?) ma anche pericolosa per i compagni. Nonostante tutto, la sua caparbietà, intesa come fede incrollabile, lo porterà sul campo di battaglia.

E qui comincia la terza e ultima parte. L’attacco a Hacksaw Ridge, un promontorio strategico e inespugnabile. È la parte più spettacolare del film, nella quale Mel Gibson mette in campo tutta la sua padronanza nelle scene di massa e nei combattimenti, senza risparmiare, al solito, immagini estreme. Per 40 minuti circa vi troverete davvero sul campo di battaglia, con la sensazione di non avere scampo di fronte agli assalti dei giapponesi. Riuscirete a perdonare anche una piccola deriva action movie anni ’80 nel finale, tenendo conto di quanto visto prima.

Quanto al cast Andrew Garfield dimostra grande sensibilità, e mi ha spinto a rivedere il mio giudizio nei suoi confronti. È quasi “divino”. Menzione speciale per Vince Vaughn. Nella seconda stagione di True Detective mi aveva convinto in un ruolo finalmente drammatico. E in questo film conferma quanto le impressioni precedenti. Stesso discorso per Hugo Weaver, che finalmente ho separato dall’immagine di Matrix. Infine Teresa Palmer, che veste i panni della fidanzata di Doss, è semplicemente incantevole. Mi ha folgorato, ma in questo caso parliamo di una fascinazione soggettiva.

Desmond Doss incarna i temi cari al regista: la fede e l’applicazione ostinata dei precetti della Bibbia, il senso di colpa e il disegno divino. Sono elementi che ritroviamo nel film, con un senso della misura molto più calibrato che in altre occasioni (vedi The Passion).

Il protagonista, segnato da un trauma infantile, si affiderà ciecamente a Dio per aiutare o recare sollievo ai compagni, in una missione apparentemente suicida. E Mel Gibson, raccontando la sua biografia, consegna alla storia del cinema un eroe di guerra mai visto prima.

Esaltante e commovente al tempo stesso.