Maestro, la recensione di Silvia Gorgi del film di Bradley Cooper in concorso all’80esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Solida la regia di Bradley Cooper, in Maestro, biopic sinuoso, sua seconda opera come regista, in concorso a #Venezia80, di cui è anche il protagonista, nei panni del direttore d’orchestra Leonard Bernstein.

Accanto a lui, nei panni di Felicia Montealegre Cohn Bernstein, Carey Mulligan. La pellicola, dall’architettura classica, in un elegante bianco e nero, con un ritmo incalzante, si concentra sul racconto della relazione tra Leonard e Felicia, che Cooper analizza con quella maestria americana nel saper raccontare, in maniera coinvolgente, quando la vita si fonda nello spettacolo, si fa dimensione artistica, e, in maniera vorticosa e straniante – scritto da Cooper insieme a Josh Singer – attraversa il successo e giunge alla perdizione.

Ma il “dono” del talento va rispettato e affrontato, gestito, con tutto il suo carico di responsabilità, che, a volte, meglio, spesso, si fa pesante, e pure ingiusto.

Maestro, la recensione di Silvia Gorgi del film di Bradley Cooper in concorso all'80esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

I figli di Leonard Berstein a Venezia (Photo by Andrea Andreetta).

Passioni

Le passioni di Leonard, amorose, spesso con giovani musicisti, mettono a rischio quel talento, oscurano quel dono, quando invece Felicia cerca di tutelarlo, di proteggerlo, e incidono fortemente anche nel loro rapporto, che pian piano s’incrina.

Per raccontarci questa vita, fatta di musica ed emozioni, fra gli anni Quaranta e gli Ottanta, Cooper cambia anche i formati, dal 4:3 all’1,85, e dal bianco e nero, il colore prende anima e respiro e invade lo schermo, mentre la vita si esaspera stretta all’angolo dall’arte, e le note scorrono – quelle della colonna sonora di Bernstein – riportando sul palco la bravura del direttore e compositore, grazie soprattutto a un’interpretazione dello stesso Cooper, perfettamente immedesimato nelle movenze di Leonard.

Per rendersi somigliante a lui, Bradley si è messo nelle mani del truccatore Kazu Hiro, premiato agli Oscar, anche se la riproduzione del naso del musicista è stata, prima dell’uscita del film qui a Venezia, fortemente criticata.

Molto a fuoco anche la performance di Carey Mulligan, attrice che lavora sempre a grandi livelli, in grado di tenere ben ferma la via del suo personaggio e la luce sulla vita di Leonard, con un carisma che solo chi ha la sua stoffa, come interprete, sa reggere con così grande naturalezza.

Un film che sfiora la perfezione

È un racconto sull’amore, il racconto di un matrimonio, e, insieme, della ricerca di libertà, di essere se stessi, senza se e senza ma, di vivere seguendo la propria essenza, capendola in primis, senza vergognarsene, di vivere nella verità.

Forse è questo anche il limite del film, nel senso che a un certo punto, la vicenda familiare e intima – a interpretare la figlia maggiore Maya Hawke – lascia da parte l’arte e la musica, e non eleva al massimo, le potenzialità della pellicola, cui manca un quid.

C’è l’amore, il dolore, la perdita, il dramma, ma per tenere tutto assieme, come su uno spartito, c’è bisogno della sinfonia perfetta, per dare all’orchestra la possibilità di respirare ogni singola nota, all’unisono.

C’è lo sforzo, c’è la resa, manca solo un piccolo tocco di bacchetta sul leggio per dare al tutto un pizzico di magia. Dunque, non perfetto – bella la fotografia di Matty Libadique – senza però quel pathos che l’avrebbe reso imperdibile. Di certo conferma le doti e il talento attoriale e registico di Cooper.