Roma, la recensione di Claudia Grilli del film di Alfonso Cuaron che ha trionfato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Ci sono periodi nella storia che lasciano cicatrici nelle società e momenti nella vita che ci trasformano come individui.

Così il regista messicano Alfonso Cuarón (Y tu mamá también, I figli degli uominiGravity) twittava il 25 luglio scorso, diffondendo il teaser trailer del suo (quasi al 100%, avendo firmato anche la direzione della fotografia, oltre a regia, sceneggiatura, montaggio, produzione) ultimo film, distribuito da Netflix, vincitore del Leone d’oro alla 75. edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia: Roma.

Sgombriamo subito il campo da possibili qui pro quo: non è il remake dell’omonima pellicola di Fellini del 1972, né ha a che vedere con la nostra “città eterna”, bensì con un’altra città … con la “C” maiuscola.

Roma è infatti il quartiere residenziale di Città del Messico, in cui a partire dai primi del ‘900 le famiglie benestanti si stabilirono in eleganti edifici dal design Art Déco, ben conosciuto da Cuarón per avervi trascorso la propria infanzia negli anni ’70.

In quest’opera Cuarón riproduce proprio quel periodo – particolarmente segnato da lacerazioni e conseguenti cicatrici – della storia del proprio paese e, in primo piano, di due donne, che abitano, a diverso titolo, in una delle case borghesi di Roma: Sofia (Marina de Tavira, attrice di teatro), la padrona di casa e madre di quattro figli, e Cleo (Yalitza Aparicio, non attrice), la sua giovane domestica di origine mixteca, a servizio “24 / 7” della famiglia, inclusi cane e pappagallini.

Ciascuna donna costituisce il nucleo stabile e coeso del proprio atomo di affetti, entro il quale orbitano familiari, amici, amori, ma quando nel loro piccolo universo l’ “elettrone” di casa (marito di Sofia) impazzisce e va fuori controllo, le due donne, dopo un’iniziale frizione, dovranno far leva sui punti di connessione – l’essere femmina e l’amore per i bimbi, elementi neutrali (o, volendo diabolicamente perseverare nella metafora, neutroni) nelle reazioni a catena in atto – per recuperare un qualche equilibrio.

Tempo e spazio ci limitano, ma allo stesso tempo definiscono chi siamo, creando inspiegabili legami con altre persone, che passano con noi per gli stessi luoghi nello stesso momento

Così, quando forze destabilizzanti esterne (agitazioni politiche, eventi di forza maggiore e … scherzi del destino) si intersecheranno con le tensioni casalinghe, minando il precario ordine ristabilito, le donne sceglieranno di far fronte comune, accorciando e rinsaldando ancor più i legami – almeno per quanto permesso dalle differenti origini e dalla rigida gerarchia sociale di quel tempo – e di tenersi strette, per accudirsi, farsi coraggio e cercare insieme nuove dimensioni… perché se un’auto va troppo larga, se ne compra un’altra più a misura.

[Le disavventure di un’altra governante messicana erano state rappresentate in modo ancor più drammatico in “Babel”, splendido film del 2006, diretto da Alejandro González Iñárritu – connazionale di Cuarón e di Guillermo del Toro, conosciuti come the three amigos fondatori della casa di produzione Cha Cha Cha Films (“Biutiful”)]

A 5 anni dal pluripremiato Gravity (presentato anch’esso alla Mostra del cinema di Venezia), Cuarón torna con un’opera autoriale (davvero!), molto intima, in quanto attinge al 90% dai ricordi della propria infanzia. Cuarón ha svelato in conferenza stampa alla presentazione del film a Venezia che Cleo impersona la tata che l’accudiva quando era bambino e che tutte le ambientazioni sono state meticolosamente ricostruite, grazie al prezioso contributo dello sceneggiatore Eugenio Caballero (già premio Oscar per Il Labirinto del Fauno”di Guillermo del Toro).

I twit di Cuarón condensano efficacemente l’essenza della sceneggiatura, ma non lasciano presagire l’arma di seduzione del film: l’atmosfera vintage e nostalgica, costruita sull’uso, davvero suggestivo, del bianco e nero (in digitale 65 mm), sul ritmo della narrazione – spezzato solo da alcuni (notevoli) intermezzi grotteschi (alla Wes Anderson) o tragicomici (alla fratelli Coen) -, sulla recitazione “a braccio” delle attrici (che apprendevano da Cuarón il copione giorno per giorno), da cui la costante sensazione di essere minacciati dall’imponderabile.

Lo spettatore è catturato, anzi ipnotizzato, già con la sequenza iniziale: motivetto alla pifferaio magico e inquadratura fissa in prim(issim)o piano su piastrelle a scacchi del pavimento, inondato a più (e più) riprese di acqua schiumosa, sempre più limpida ad ogni riflusso, per tornare a riflettere il cielo tagliato da un aeroplano in rotta verso l’altrove.

Con i successivi piani sequenza si è subito teletrasportati dentro ad uno schermo tv degli anni ‘70 (in bianco e nero, appunto) in cui va in onda la telenovela della famiglia Cuarón – una sorta di Amarcord messicano (quindi qualcosa di felliniano c’è!) – e si rimane sintonizzati a bocca aperta, come bambini di fronte ai racconti di gioventù della nonna.

La pellicola vuole essere un omaggio alle figure femminili dell’infanzia del regista, raccontate non in soggettiva (dal Cuarón bambino), bensì con piani sequenza che rendano il punto di vista del Cuarón adulto, intenzionato a rappresentare la donna che si cela dietro alla propria madre e alla propria tata.

Tuttavia non sembra che quest’intento sia stato pienamente trasfuso nella pellicola. Il film consegna infatti una visione troppo romantica dell’universo femminile per essere il risultato dell’elaborazione di un uomo maturo, troppo spinta al dualismo netto (bianco/nero, ying / yang, rigenerazione /distruzione) per risultare veritiera. Si sottolinea in effetti il coraggio, lo spirito di solidarietà e la dedizione, fino all’abnegazione, delle donne – o quantomeno di queste donne, un po’ incastrate nel relativo stereotipo – ma non ci si spinge ad investigare le loro reali aspirazioni.

Anche i personaggi maschili (in primis il marito di Sofia e il fidanzato di Cleo) risultano esageratamente meschini e vigliacchi, tanto da scadere quasi nel ridicolo. Ma presumibilmente tutto ciò è riconducibile alla fedele adesione all’ambientazione spazio – temporale della narrazione e alla visione estremistica del bambino che ancora vive in Cuarón.

Che il film abbia conquistato l’intera giuria di Venezia ormai è cosa nota – per cui nessun favoritismo da parte del presidente Guillermo del Toro (vincitore lo scorso anno del Leone d’oro con La forma dell’acqua). Quindi con buona pace degli inviati Sugarpulp a Venezia (che tifavano La Favorita di Yorgos Lanthimos) e di un altro presidente (Trump … que viva Mexico!

Così come è acclarato che Netlix a Venezia (contrariamente che a Cannes) abbia vinto über alles. Del resto, come ha giustamente puntualizzato Cuarón in conferenza stampa, senza Netflix un film come Roma – in lingua spagnola / indigena, in bianco e nero, drammatico, non di genere – non avrebbe avuto alcuno spazio nella distribuzione.

Un consiglio spassionato: nonostante questa pellicola sia destinata alla piattaforma Netflix, essendo stata girata in digitale 65 mm, con effetti visivi e un suono dolby Atmos, va apprezzata preferibilmente su grande schermo. L’invito è dunque di correre al cinema non appena uscirà nelle (selezionate) sale cinematografiche (a partire dal 14 dicembre).

La delegazione Sugarpulp ringrazia: la Giuria per il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria a La Favorita e, fra l’altro, per la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Olivia Colman; la direzione della Mostra per l’altissimo livello di questa edizione di grande successo; i bar del Palazzo del Casinò per lo spritz a soli € 3,00; i ristoratori del Lido per il baccalà mantecato come lo faceva mia nonna (veneziana) e infine la città di Venezia, che merita di essere amata, rispettata e protetta dalle sue palafitte alle ali del leone di San Marco.

Xe vedemo el 28 agosto 2019!