Massacrata dalla critica italiana Curon è una serie imperfetta ma molto interessante: un importante passo in avanti per smarcare la serialità italiana dagli stereotipi.

A quanto pare criticare Curon e dirne peste e corna è stato il principale passatempo dei critici televisivi nostrani nelle ultime settimane.

La serie italiana del momento prodotta e lanciata da Netflix ha infatti infiammato il web e riproposto un dibattito che da anni tiene banco nel nostro paese circa la possibilità di vedere uno show di successo che non sia, una volta tanto, incentrato su criminalità, mafia e malavita.

Se da un lato produzioni come Romanzo criminale, Gomorra, Il Cacciatore, Suburra, Zero zero zero – tanto per fare alcuni celebri esempi – hanno dimostrato la nostra capacità di raccontare su schermo storie dal respiro internazionale, in molti casi  apprezzate anche all’estero, dall’altra è emerso un limite evidente riguardo ad un genere, il crime, dal quale sembriamo avere grandi difficoltà a staccarci.

Uscire dal genere

Prendiamo ad esempio Netflix: delle serie italiane sinora lanciate – Curon esclusa – contiamo Suburra (crime), Baby (dramma adolescenziale), Luna Nera (fantasy storico) e Summertime (sentimentale). Delle quattro l’unica che possiamo dire riuscita e gradita anche oltre confine è proprio la prima.

Un caso? Diciamo che se due indizi fanno una prova direi proprio di no. Ovvio la serie sulla criminalità romana ha goduto del traino di quella bomba che è Gomorra, la quale ha “allargato” una strada già aperto da Romanzo criminale che negli anni recenti è stata molto battuta ottenendo grande esito. Ma, siamo onesti, il problema di lavori come Baby e Luna Nera non è quello di allontanarsi dal racconto di una parabola criminale:  ci sono enormi criticità nella scrittura, nei dialoghi e nella recitazione che poco o nulla hanno a che fare con il loro essere drammi adolescenziali o racconti fantastico/storici. Insomma, se non funzionano la colpa non è certo quello del genere. 

Alla faccia dei critici nostrani

Ben venga dunque una novità come Curon, a metà tra thriller soprannaturale ed il mistery adolescenziale, che pur con i suoi innegabili difetti marca rispetto ai suoi predecessori un netto passo in avanti per un progetto che non parli di criminalità organizzata. E non è cosa da poco. 

Questo preambolo per dire che il massacro mediatico avvenuto in patria ci pare spesso  gratuito o quanto meno esagerato. Non è affatto  casuale che all’estero lo show sia stato accolto spesso con buon entusiasmo raccogliendo su Rotten Tomatoes un 71% di votazioni positive da parte della critica.

Non sarà il 96% di Breaking Bad, ma non ci sembra affatto una débâcle, soprattutto in virtù del trattamento ricevuto in patria, dove ci sono critici capaci di massacrarlo e magari hanno pure la faccia di salvare una boiata indifendibile come Sotto il sole di Riccione

Curon, la trama

Ma torniamo a noi. Curon è un prodotto che si allinea alla media Netflix e che ha il merito di esplorare nuovi territori senza presentare le lacune palesi e sistematiche delle serie citate in precedenza.

Il racconto, ambientato ai giorni nostri, ruota intorno alla famiglia Raina ed al suo misterioso legame con la cittadina di Curon, in provincia di Bolzano. La località è famosa per essere stata completamente abbattuta e ricostruita nel 1950 per fare spazio ad un lago artificiale destinato alla produzione di energia elettrica dal qual emerge il suggestivo antico campanile a ricordo il centro abitato che fu.

Nel pilot Anna Raina (Valeria Bilello) dopo 17 anni di vita a Milano fa ritorno con i suoi figli, i gemelli Mauro (Federico Russo) e Daria (Margherita Morchio) nel suo paese natale per motivi sconosciuti.

Ad accoglierla, o meglio a respingerla, il padre Thomas che è restio ad ospitare i tre nel vecchio albergo di famiglia, dove la madre di Anna è morta in misteriose circostanze. Nonostante la riluttanza iniziale di Thomas i tre si installano a Curon, ma ben presto Anna scompare inspiegabilmente e tanto i gemelli quanto il loro nonno iniziano a cercarla riportando a galla un passato doloroso che tutti sembrerebbero voler dimenticare.

La storia ha un discreto incipit che ci proietta immediatamente nell’atmosfera affascinante ed allo stesso tempo malata della cittadina e dei bellissimi paesaggi che la circondano, splendidamente ripresi con una fotografia algida che privilegia toni scuri e cupi.

Leggende e dopplenganger

Senza voler spoilerare troppo possiamo affermare che dopo i primi apprezzabili ma indecisi episodi la parte più convincente della serie è quella centrale, quando emerge la leggenda che vuole che gli abitanti del paese possano, in una fase particolarmente complicata della loro esistenza, iniziare a sentire nella testa le campane (rimosse e quindi inesistenti) della vecchia torre campanaria dando vita al proprio doppelganger, pronto ad emergere dalle acque del lago per eliminare il gemello “originale” non più in grado di sopportare situazioni e relazioni che lo fanno sentire in trappola…

L’arrivo del primo doppelganger è una vera sorpresa  e la prova di Luca Castellano nei panni dell’adolescente Lukas marca un  punto di svolta nella narrazione che si fa più spedita e coinvolgente. Peccato però per un finale che  non raggiungere mai quel climax che avremmo sperato e lascia parecchie perplessità e punti in sospeso.

Questo è uno dei principali motivi per cui lo show è stato fortemente criticato, ma anche in questo caso bisogna fare delle doverose precisazioni: è vero che non capiamo mai il perché dell’improvvisa fuga di Anna da Milano, ed è altresì innegabile che diverse svolte narrative lasciano spaesati e che molti – apparentemente troppi – misteri che circondano la città trentina restano senza spiegazione.

Ma va altresì considerato che in un  prodotto pensato per essere seriale ed avere un seguito, come in questo caso, molti enigmi e dubbi potrebbero essere volutamente lasciati aperti in vista di una seconda stagione.

Adolescenti protagonisti

Se c’è una cosa che Curon fa bene è la descrizione dei teenager e del loro mondo senza inciampare (troppo) in facili stereotipi sui quali sarebbe stato facile puntare.

I giovani attori che interpretano i gemelli Raina, così come il già menzionato Lukas ed i fratelli Giulio e Micki Asper, impersonati da Giulio Brizzi e Juju Di Domenico,  offrono una bella prova e sebbene criticati per la loro dizione – su questo punto guardatevi Luna Nera e fatemi un fischio – alla fine risultano credibili e non possono  che essere promossi.

Discorso diverso va fatto, purtroppo, per la recitazione degli adulti. Se la Bilello se la cava tutto sommato sufficientemente bene, gli attori che interpretano Thomas (Luca Lionello) e Albert Asper (Alessandro Tedeschi) (ex fidanzato di Anna e padre di Giulio e Micki), scivolano costantemente in un fastidioso overacting

Curon, una serie coraggiosa

Sotto altri punti di vista Curon non si può dire un progetto non riuscito: come dicevamo ottima fotografia, bella messa in scena, la regia di Fabio Mollo e Lyda Patitucci non presentano grandi sbavature così come il montaggio, e lo script affidato a Ezio Abbate, Ivano Facchin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano pur lasciando parecchi punti in sospeso ha una sua originalità nell’affrontare il tema certo non nuovo del doppio.

Curon non ci fa gridare al miracolo che attendiamo da tanto tempo, non è né il Dark né lo Stranger Things italiano, ma ha il merito di intraprendere una direzione nuova ed il coraggio di proporre un qualcosa di inedito nel panorama seriale del nostro paese.

E se è vero che i capoccia di Netflix hanno intenzione di raddoppiare già da quest’anno le produzioni italiane potrebbe essere il seme dal quale verrà fuori un gran bel albero. Staremo a vedere. Purtroppo le critiche spesso immotivate ricevute in casa non giocano a favore…