Danilo Villani intervista Piergiorgio Pulixi in occasione dell’uscita de Lo stupore della notte, il suo nuovo romanzo pubblicato da Rizzoli Libri.

Lo stupore della notte - CopertinaTitolo: Lo stupore della notte
Autore: Piergiorgio Pulixi
Editore: Rizzoli Libri
PP: 364

Piergiorgio Pulixi, grande amico di questo magazine, stupisce ancora una volta i suoi lettori cambiando completamente il contesto narrativo. Da poliziotti marci alla minaccia incombente del terrorismo di matrice religiosa.

La sua ultima opera Lo stupore della notte fornisce un quadro dettagliato delle ansie e dei timori che, amplificati anche dai media e dai social network, inevitabilmente turbano le menti, e soprattutto la pancia, della maggior parte dell’opinione pubblica.

Il tutto attraverso lo sguardo di Rosa Lopez, personaggio al quale è difficile non affezionarsi.

Intervista a Piergiorgio Pulixi

Nell’ intervista che celebrava l’addio alle “pantere”, hai rassicurato i lettori con la promessa di “scrivere” per lenire il dolore del distacco dall’icona Mazzeo. Promessa più che mantenuta. Le idee che hanno preso poi forma con la tua ultima opera, erano già in nuce a quel tempo?

Come già ti dissi in quell’intervista, le dinamiche della lotta al narcotraffico e della guerra al terrorismo sono molto simili, soprattutto se teniamo conto degli altissimi interessi economici che ruotano attorno alla “faccia oscura della luna”, quella che sfugge alle cronache giornalistiche e alla propaganda politica. Ero consapevole che prima o poi avrei affrontato il tema del terrorismo e del controterrorismo ma dal mio punto prospettico e attraverso la mia “poetica” che è quella di raccontare la prossimità e la contiguità con il male delle forze dell’ordine e di come questo rapporto così stretto vada col tempo a ledere (o cercare di ledere) la loro morale e la loro integrità. Avevo solo bisogno delle persone giuste che mi aiutassero a comprendere i meccanismi più sottili di questa “guerra fantasma”. Una volta che le ho trovate, la storia ha iniziato a fluire con molta naturalezza.

Indubbia protagonista del romanzo è Rosa Lopez. Di là delle considerazioni in parte proto o post femministe, quanto è stato difficoltoso costruire un personaggio così “pesante”? Quanti ostacoli hai trovato per pensare e, di conseguenza, agire come una donna?

Credo che l’ostacolo più grande sia confinare un iniziale senso di inadeguatezza nei recessi più innocui della nostra consapevolezza, dando libero spazio alla volontà di mettersi in gioco, senza paura. Abbracciare un’altra forma mentis non è mai semplice; se poi parliamo addirittura di una diversa sensibilità di genere, la questione si fa ancora più complessa. Sono stato aiutato da un lavoro precedente, “L’ira di Venere”, una raccolta di venti racconti ognuno con un focus su una donna diversa, che è stato propedeutico alla creazione del personaggio di Rosa. Un’ottima palestra per irrobustire mimesi ed empatia.

La tua scrittura e il tuo stile si sono sempre distinti per la loro velocità. In quest’ opera sembra che tu abbia pigiato ancor di più sull’acceleratore. Il romanzo marcia in tempo reale comprimendo il plot al massimo livello costringendo il lettore, fatta eccezione per alcuni flashbacks temporali, a non concedersi pause, a divorare letteralmente il romanzo. Quanto hai lavorato su questa tecnica?

Parecchio, in virtù di una consapevolezza che mi ha costretto a fermarmi e pensare prima di proseguire – dall’idea primigenia – con la scrittura creativa del testo. Oggi il lettore è anche un vorace spettatore e soprattutto un fruitore di social network. Questo, da una parte, ha comportato una velocità di fruizione dei media allucinante e un drastico abbassamento della soglia di attenzione dall’altra: è difficile tenere inchiodato alle pagine un lettore senza che questi vada a controllare ogni dieci righe le notifiche su FB o Instagram; è difficile, ma non impossibile. Sta alla bravura dell’autore ricorrere a tutti gli artifici narrativi a propria disposizione per vincere la seduzione del “mi piace”; il segreto, a mio avviso, è guardare indietro, seguendo le lezioni di chi ci ha preceduto: Dumas, Hugo, Dickens, Manzoni, e tantissimi altri Maestri erano bravissimi nel far scivolare il lettore dentro la storia e avvilupparlo fino alla fine. Consapevole che i miei concorrenti non erano più i colleghi autori, ho cercato di lavorare su un ritmo ancora più sostenuto della storia desiderando far dimenticare al lettore il canto delle Sirene dei social.

Niente più “Giungla” o luoghi lasciati all’immaginazione del lettore ma una città vera: Milano. La scelta della capitale “morale” è dovuta al fascino che da sempre ha esercitato sulla letteratura di genere?

In parte sì, la grande metropoli è il topos letterario per eccellenza del noir e dell’hard-boiled, ma al di là di questa fascinazione c’era la volontà di raccontare come Milano sia – nell’immaginario iconografico di Daesh – l’unica vera metropoli italiana, quella che più incarna l’apostasia dell’Occidente; pensa ai grattacieli, a questo rinascimento estetico, culturale, archittetonico, economico… ai loro occhi Milano è un simbolo come lo può essere Londra, Parigi o Berlino. Milano è una città “calda” per quanto concerne la minaccia terroristica. Volevo raccontare tutto questo cercando in qualche modo di esorcizzare queste paure.

Nel romanzo colpisce l’abbondanza di dettagli “tecnici”: armi ed esplosivi su tutti. Ma il lettore rimane meravigliato dalla caterva di sigle, sezioni, enti e apparati votati alla sicurezza dello stato. Come evidenziato dalla seconda di copertina, ti sei avvalso di qualche “fonte”. Possiamo parlarne, oppure?

Esistono tante persone che operano nell’ombra e nell’inconsapevolezza generale per la sicurezza della nostra comunità: persone che sacrificano porzioni importanti della propria vita privata per puro spirito di servizio e senso del dovere. Il loro lavoro non è percepibile dall’opinione pubblica e per certi versi è meglio che sia così, perché sono operazioni molto delicate. Ho avuto la fortuna di conoscere una persona che opera in questi ambienti e che mi ha posto delle domande ben precise: “Perché secondo te l’Italia è uno dei pochissimi paesi europei fatto salvo (per fortuna) da attentati di matrice jihadista?”, a cui è seguita una domanda retorica: “Perché abbiamo le migliore agenzie di intelligence e le migliori eccellenze investigative nelle forze dell’ordine?” (la risposta è sì, abbiamo questo primato a livello europeo). Sì, quindi, ma non solo. Le risposte sono molteplici e alcune abbastanza inquietanti. La seconda domanda è stata: “Cosa ritieni che la comunità e la popolazione italiana sia disposta a sacrificare in virtù della sicurezza pubblica rispetto a quanto ha già sacrificato in questi anni? Pensi che sarebbe davvero in grado di tollerare la verità su quanto ci viene raccontato?”. Puoi ben capire che dopo queste domande non vedevo l’ora di iniziare a documentarmi e scrivere.

C’è un fil rouge che attraversa tutto il romanzo che ha un che di “politico”. Mi riferisco al fatto che il nostro paese è rimasto immune a svariati attentati che hanno sparso sangue in quasi tutto il nostro continente. Il pensare comune vuole che l’Italia sia solo terra di passaggio ma qualche tempo fa un tuo illustre collega, tale Giancarlo De Cataldo, a mia precisa domanda rispose che i nostri servizi informativi sono di primissimo ordine in quanto lo humint è privilegiato rispetto alla tecnologia. Sei d’accordo?

Certamente. Come Paese abbiamo una lunga storia di lotta al terrorismo, sebbene di matrice diversa: politica, di entrambi i colori; questo ha comportato la creazione di una sorta di tradizione investigativa che si è affinata negli anni tenendo la guardia molto alta. Il terrorismo islamico ha sicuramente dinamiche diverse, però il controllo del territorio è indubbiamente uno dei maggiori metodi di contrasto e prevenzione e questo è un fiore all’occhiello delle nostre forze di Polizia. Per rispondere alla tua domanda, al primato dei nostri servizi di intelligence (meritatissimo) aggiungerei il fatto che noi, come Paese, abbiamo una storia coloniale differente rispetto a paesi come la Francia o il Belgio; abbiamo meno immigrazione di seconda e terza generazione (quelle più facilmente indottrinabili) e abbiamo storicamente rapporti – per quanto ambigui – meno conflittuali con i paesi dell’area mediterranea e mediorientale. Per onestà intellettuale e dovere di cronaca è anche giusto sottolineare che alcune evidenza processuali e investigative stanno rilevando delle congiunture economiche e delle consonanze commerciali tra Daesh e le nostre organizzazioni criminali mafiose, ʼndrangheta in primis: quest’ultimo, inquietante scenario temo che avrà parecchie evoluzioni in futuro.

Tu non hai mai nascosto, e qui si dimostra tutta la tua onestà intellettuale, di trovare spunti per le tue opere anche dai Maestri del passato. Non solo letteratura ma anche cinema. Personalmente sono stato stimolato da un paio di situazioni a trovare dei parallelismi (che ti dirò in un orecchio). Confermi?

Confermo in toto. Il cinema è sempre brodo di coltura per l’immaginazione e molte suggestioni che poi riverso nei romanzi arrivando da quel mondo, o dai fumetti, dalle serie-tv, dai videogame, dal teatro… Credo che quasi tutto sia già stato raccontato (se non addirittura tutto). A noi autori compete il riversare nuova linfa vitale in archetipi e modelli narrativi vecchi di migliaia di anni. C’è un detto a Hollywood in voga tra i produttori che recita: “Il vecchio che funziona sempre”. È così anche nel mondo della narrativa: il segreto è sapersi reinventare e rinnovare.

Un’ultima domanda: “Se Telefonando” è al terzo posto nella mia personalissima top ten italiana all time. Perché un ragazzo dell’82 sceglie un brano del ’66 come leit-motiv della sua opera e carpisce un frammento del testo per dare il titolo al romanzo?

Perché al mondo tutto sfiorisce, svilisce e perde di significato. Tutto, ma non la poesia. E “Se telefonando” non è una semplice canzone, ma una struggente poesia.

Non rimane altro che ringraziare, e abbracciare, il nostro caro Piergiorgio e consigliare vivamente la lettura del romanzo.