L’arte e l’erotismo, un’analisi di un sentimento di paura e angoscia che attanagliò l’epoca decadente attraverso le opere di alcuni artisti chiave per il periodo.

La rue assourdissante autour de moi hurlait. Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse, Une femme passa, d’une main fastueuse Soulevant, balançant le feston et l’ourlet; Agile et noble, avec ça jambe de statue. Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan, La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

[Da Les Fleur du Male, 1857-1861, Charles Baudelaire, À une passante, vv. 1-8]

Eros e Thanatos sono da sempre due pulsioni primordiali che si rincorrono, fra mito e arte, dando luogo a meravigliose espressioni di bellezza.

La dolcezza che affascina e il piacere che uccide è un verso di una poesia di Baudelaire, À une passante, e racchiude in sé la spiegazione di quell’oscuro oggetto del desiderio che, fra fine Ottocento e inizio Novecento, ossessionerà le fantasie pubbliche e private della casta intellettuale europea, fra pagine di romanzi, libretti d’opera e opere d’arte. “L’immagine femminile addensa malia e maleficio, apporta sventura e, mentre seduce, annienta.” Eva di Stefano[1] riassume così un’epoca di “femmes fatales”, dove la donna smette di essere vista come l’angelo del focolare e si trasforma in una messagera del fato, una megera e anche un po’ una parca che conosce il destino degli uomini.

La donna “fatale” racchiude in sé antica fantasia e idea moderna, vanifica con la sua semplice esistenza l’orgoglio positivista e riporta l’azione virile del mondo al suo status primordiale, fatto di bisogni, fragilità e corruzione.

È un’immagine lontana, che può ritrovarsi in Lilith, Pandora, Circe o Medusa, che ritorna, sotto nuove sembianze: sinuose e danzanti Salomè, come nei disegni di Beardsley o nella musica di Richard Strauss. Un corollario di illustrazioni che diventeranno un cliché, fantasmi affascinanti e repulsivi, vampire, donne sofferenti che ripopolano le alcove degli artisti decadenti, si siedono nei sofà dei simbolisti e vi rimangono dentro, riportando a poco a poco alla memoria una grande forza primordiale: quella della Grande Madre, la dea delle origini, quella che crea ma che può anche distruggere, inghiottendo e uccidendo i suoi figli. Un Matriarcato forte e crudele, il cui ritorno viene persino ipotizzato nel 1861 dallo studioso svizzero Bachofen, nel suo Das Mutterrecht.

Un regime matriarcale che, se nell’epoca primitiva era più come un sogno, alla fine del secolo borghese si trasforma in un incubo, in una grande paura, contornata dalla malattia dell’epoca, la misoginia. Il ventre materno, avvolgente e protettivo, viene soppiantato dall’immagine di una “vagina dentata”, pronta a stritolare e a distruggere tutto ciò che può essere progresso, i figli – quindi – ma anche lo stesso procreatore.

Tutto ritorna a Freud e alle teorie di base della psicoanalisi, dove si sostiene che ogni nostra azione sia in realtà governata da un istinto primordiale, fatto prevalentemente di una spinta sessuale. L’impulso animale, i desideri primari possono essere distruttivi, si teme possano bloccare il progresso, il futuro, le azioni umane, e perciò vengono repressi. Il conflitto fra istinto e cultura crea angoscia, paura, ansia. La donna è il desiderio ed ecco perché, in una società dove il potere è soprattutto maschile, essa si trasforma in una grande paura.

Un timore che, prima di essere paura dell’alterità, è paura di sé stessi e dei propri desideri. Non a caso, questa epoca è sia il tempo della bella Salomè danzante, ma è anche il tempo della Nora di Ibsen (Casa di Bambola, 1879): una donna che spezza volontariamente il suo legame matrimoniale, che rinuncia al suo ruolo di angelo del focolare per salvare sé stessa dall’abnegazione. Il dominio dell’uomo sulla donna sta iniziando a scricchiolare, ed è per questo che ci si spaventa. La nuova forza dell’universo femminile appare pericolosa e determinata, troppo per non poter esser considerata già una nemica.

Inizio qui una serie di articoli dove tratterò il rapporto che ebbero alcuni artisti con le donne e con la dimensione dell’Eros, in quest’epoca dove l’universo femminile diventa anche sinonimo di universo erotico. Partirò con Gustav Klimt, l’artista viennese nella cui arte la donna ebbe un ruolo centrale, sotto vari aspetti.

KLIMT E LE DONNE Gustav Klimt nacque nel 1862 a Vienna, in un sobborgo della città austriaca. Frequentò la scuola d’arte e di mestieri, dando vita anche ad una sua primissima società artistica già in giovane età, assieme al fratello (intagliatore di cornici) e ad un amico. Nel 1897 fu tra i fondatori della Secessione Viennese, di cui divenne anche il primo presidente, dove vi rimase attivo fino al 1906. In quell’anno si distaccò dal gruppo in seguito ad alcune polemiche, e uscendone formò un nuovo gruppo artistico conosciuto come la “Kunstschau”.

La vera e propria svolta artistica che portò Klimt al suo stile inconfondibile avviene nel 1901, quando Klimt presenta il celebre Giuditta I, primo esempio di quelle opere bidimensionali, lineari e decorativissime che saranno emblema di tutta la sua arte.

Il periodo aureo di Klimt si fermerà, senza volerlo, con la seconda versione della sua eroina preferita, Giuditta II, risalente al 1909. In questo anno, il pittore viennese si ritrova ad affrontare un periodo di crisi da cui uscirà solo dopo qualche anno, con un nuovo stile più espressionista e colorato, che lo fa più simile ai suoi due allievi/eredi Egon Schiele e Oscar Kokoschka. Klimt morirà nel 1918, a cinquantasei anni, in seguito ad un ictus cerebrale.

Nell’arte di Klimt, le donne sono un soggetto fondamentale e imprescindibile. La donna, per Klimt, è l’idea stessa dell’eros: quell’eros che fa la donna fatale, perché è al contempo amore e morte, salvezza e perdizione. Un leitmotiv della mentalità del tempo, che per Klimt ha però una connotazione meno misogina dei suoi contemporanei, almeno fino al 1903.

Nella sua arte la donna è protagonista suprema, è elemento superiore, è una forza che sovrasta quella maschile, sopprimendola ed eliminandola. La donna è vita, bellezza e depositaria del segreto dell’esistenza.

Nel 1901 Klimt dipinge Giuditta I, rivisitazione della storia biblica di Giuditta, l’eroina della cultura ebraica che liberò il loro popolo dall’assedio assiro, uccidendo il loro capo, il generale Oloferne. La storia racconta come Giuditta sedusse il generale per ucciderlo poi, decapitandolo con la sua stessa spada.

Giuditta è dunque l’emblema della femme fatale, la donna la cui forza seduttrice riesce a sconfiggere anche la virilità più bruta, esempio supremo di quell’esasperazione dell’eros che rimane sempre sospeso nel confine fra amore e morte. I tratti del volto di questa Giuditta Klimtiana sono probabilmente di Adele Bloch – Bauer, esponente dell’alta società viennese, di cui il pittore fu amante.

A differenza dei suoi coevi colleghi artisti, i quali preferivano l’immagine dell’adolescente Salomè, Klimt opta per la rappresentazione della figura di Giuditta: una donna matura e compiuta. Giuditta è essa stessa il potere, non deve chiedere ma decidere; è lei stessa a compiere – con le sue mani – quel delitto che invece la giovane Salomè fa compiere per procura, con non poco cinismo, solo per soddisfare il desiderio della madre. Giuditta sa ciò che vuole, è padrona del suo desiderio e questo dipinto non è che una sua celebrazione. Una cacciatrice di teste che viene rappresentata con il volto appagato dal piacere, con l’occhio languido semi dischiuso che lascia ben intendere la valenza erotica dell’opera, mentre fra la meni regge e accarezza la testa mozzata di Oloferne.

Il pesante collare d’oro che la incatena al fondale sembra quasi mozzarle la testa, a riproporre ma anche a vendicare il suo gesto appena compiuto, una sorta di decapitazione/castrazione che motiva quel suo lascivo piacere. Ma il sogno maternale, incubo supremo del positivismo, diventa in Klimt l’unica possibile utopia e, perciò, le donne non sono solo resolute assassine, sono anche madri, speranza di nuova vita, chiave dell’esistenza. Ecco perché esse sono sempre protagoniste dei suoi dipinti, mentre l’uomo diviene un soggetto marginale, spesso messo in disparte o rappresentato di spalle.

Sono proprio le fantasie bachofeniane a influenzare le sue prime opere, come può ben testimoniare la decorazione pittorica che Klimt fece per l’aula magna dell’Università di Vienna. È proprio il volto della Grande Madre primordiale che Klimt dà alle discipline che avrebbero dovuto celebrare le conquiste del progresso, il “trionfo della luce sulle tenebre”.

Filosofia (1899) rappresenta un mondo fatto di nebbia, dentro un immenso corpo femminile con la testa di sfinge che domina l’umanità confusa nelle sue angosce. In Medicina (1900), l’umanità galleggia fra un ventre di donna e lo spettro della morte. Igea, la figura femminile qui rappresentata in quanto divinità mitologica protettrice dell’igiene e della salute, sembra essere l’unico elemento saldo e determinato dell’opera. Un po’ come a significare come la donna sia la sola e vera depositaria del potere, unica conoscitrice del mistero della vita. Giurisprudenza (1903), invece, presenta già un senso di sdoppiamento di questo archetipo materno: la donna è madre ma anche crudele giustiziera. Il dipinto cristallizza l’angoscia per il potere negativo di questa forza matriarcale, ponendo un inerme Oreste nudo e inginocchiato affianco alla sua colpa, una sorta di piovra-utero che lo fagocita e lo imprigiona, mentre le tre Erinni lo circondano e si preparano a punirlo.

È con Speranza I, però, che viene segnata una svolta decisiva nelle tematiche scelte nelle rappresentazioni di Klimt: un dipinto dal realismo scandaloso, dove una donna nuda e incinta rappresenta sia il doppio volto della maternità sia la duplicità della psiche, dove l’amore è un’arma a doppio taglio. Il dipinto scandalizzò le menti benpensanti dell’epoca perché non vi era solo rappresentata una donna incinta nuda e quindi impudica, ma affianco ad essa Klimt mise una strana piovra nera, un mostro diabolico che fa quasi pensare ad una maternità satanica, un inquietante presagio di maleficio divorante e fatale, proprio come l’incubo ossessionante dell’epoca.

La caducità della vita e la vanità della bellezza sono temi che ricorrono spesso nell’opera di Klimt, come ad esempio nel celeberrimo Le tre età della donna (1905), dove la madre che stringe il bambino non è che una struggente poesia dedicata all’umanità fragile e minacciata dal tempo. Sono molte e irrinunciabili le donne che costellano l’arte di Gustav Klimt, che le dipingerà sempre come soggetto primario, come una conditio sine qua non. Madri, sirene, cacciatrici di teste, ondine malefiche e infide come l’acqua in cui nuotano. Figure sinuose e fluttuanti che si confondono e quasi si fondono con la tela in cui sono impresse, come alghe fra le alghe, fiori fra i fiori, immerse in uno sfondo fatto di sontuose decorazioni.

[1] Eva Di Stefano, Giunti, 2000