White Noise, la recensione di Matteo Strukul del film di Noah Baumbach tratto dal bestseller di Don DeLillo in concorso a Venezia79.

Con White Noise di Noah Baumbach, film d’apertura della Settantanovesima edizione della Mostra D’Arte Cinematografica di Venezia ho un problema, anzi più d’uno: non sono un estimatore del regista, non mi fa impazzire in particolare quel suo stile che sembra dirti a ogni istante quanto sofisticato, intelligente e maledettamente profondo è il suo modo di fare cinema.

A complicare le cose c’è il fatto che il suo nuovo lungometraggio è tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, autore americano che ho sempre trovato di una noia mortale. In più, il protagonista è Adam Driver che mi sta antipatico in un modo istintivo e per certi versi, lo ammetto, inspiegabile. Ma tant’è. Insomma, se c’è uno che nutriva aspettative bassissime per questo film ero io, anzi a dir la verità non ne nutrivo affatto.

Naturalmente, un simile fatto rileva poco o niente, visto che è solo la mia opinione, tanto più perché la stragrande parte della critica osanna Baumbach perlomeno dai tempi de Il calamaro e la balena.

Sorpresa positiva

Morale? White Noise, alla fine, non mi è dispiaciuto affatto. Adam Driver tanto per cominciare è davvero molto bravo. Interpreta Jack, un professore universitario che è il massimo esperto di Hitler in America e ha una famiglia con quattro figli avuti da vari matrimoni. È innamorato della sua attuale quarta moglie, Babette, interpretata da una convincente Greta Gerwig.

L’equilibrio familiare sembra andare in crisi dall’arrivo di una nube tossica che è l’occasione perfetta per mettere in scena dinamiche, paure e ossessioni per buona parte simili a quelle vissute in questi anni di pandemia.

Il gioco è fin troppo facile e confesso, inizialmente, di aver visto confermate le mie previsioni non esaltanti ma invece, andando avanti con il film – che a onore del vero è molto lungo, forse troppo – ci si rende conto che il pericolo poi scampato non è il vero centro del film che è invece rappresentato dalla grande riflessione sulla morte, analizzata a livello psicologico, sociale, sentimentale, economico e sulle contromisure messe in campo dall’essere umano: religione, capitalismo, famiglia.

Un film che ha momenti di ottimo cinema

Il risultato è un film che ha momenti di ottimo cinema, penso alla lunga sequenza dell’evacuazione, o ai molti, efficaci dialoghi fra Driver e Gerwig; ottime interpretazioni; alcune trovate divertenti e riuscite, come quando la famiglia si ritrova chiusa in auto a galleggiare nel letto di un fiume e Driver tenta di sterzare per dare una direzione alla vettura.

Per contro, la ricerca a tratti troppo insistita del grottesco e alcuni monologhi artefatti e teatrali fanno perdere una certa spontaneità che forse avrebbe reso il film più sincero e diretto, meno filtrato da intellettualismi che, pur non essendo di per sé un difetto, non ne rappresentano nemmeno un pregio a priori.

Resta il fatto che White Noise pone parecchi interrogativi allo spettatore, offrendo un cinema che regala considerazioni mai banali, fra queste: le necessarie illusioni di religione e fede, il controllo delle masse attraverso paura e potere, la policroma e rassicurante euforia del supermercato, i meccanismi piscologici che governano la famiglia, la difficile posizione della sanità fra conoscenze mediche e necessità del paziente, le presunte soluzioni semplici a problemi complessi.  

Su tutto questo aleggia la presenza della morte affrontata con ironico distacco, umana inadeguatezza e istinto di autoconservazione. 

White Noise si rivela un po’ alla volta: è un film di qualità, che fa riflettere e anche divertire, e che mette a nudo una certa inefficacia solo quando Baumbach indulge in un autocompiacimento, magari non del tutto voluto ma di certo presente. Almeno a tratti.