Giovanni Miani, il Leone Bianco del Nilo. L’esposizione in mostra a Palazzo Roncale a Rovigo fino al 26 giugno.

A Palazzo Roncale, di fronte a Palazzo Roverella, a Rovigo, dove da tempo, nel corso di importanti esposizioni, si stanno organizzando in concomitanza piccole mostre, da fruire – con un biglietto unico, o gratuitamente – in contemporanea con i grandi eventi, per conoscere storie e personaggi legati al territorio, fino al 26 giugno, è possibile scoprire – insieme a Kandinskij (al Roverella) – , la figura di un incredibile esploratore: Giovanni Miani, il “Leone Bianco del Nilo”.

Il Leone Bianco del Nilo

Con questo nome divenne celebre per le sue imprese di esplorazione in Egitto. Rodigino, nato nel 1810, e scomparso nel 1872, passò una vita alla scoperta delle sorgenti del Nilo. La sua fu una vicenda da romanzo d’appendice e da film. Musicista, patriota, a 150 anni dalla sua morte, le sue imprese da esploratore-reporter vengono riportate alla luce, in quest’esposizione, che, attraverso lo storytelling, ridona vita ai sogni e alle chimere di questo personaggio sui generis, che si spostò da Costantinopoli all’Egitto, in cerca di rivalsa.

Fu un particolare esploratore Miani, visto che, a differenza di molti altri avventurieri che non certo brillarono per rispetto e comprensione delle culture autoctone, seppe denunciare le ingiustizie, in un’epoca di colonialismo brutale, ed ottenne, man mano che le andava scoprendo, la stima, l’ammirazione e il rispetto, delle tribù locali, grazie al suo coraggio e alla sua generosità. Per questo divenne “il Leone Bianco del Nilo”.

Appassionato di musica e cartografia, Miani, è una figura a tutto tondo, che si mosse in viaggio conoscendo le principali capitali europee, e spostandosi poi nei selvaggi territori dell’Africa nord-orientale. Ma la passione che maturò in maniera sempre più forte in lui fu l’interesse per quello che divenne l’unico obiettivo di vita: per le sorgenti del Nilo e più diffusamente per il continente africano. A raccontarlo è lui stesso attraverso i suoi “diari”, testimonianza anche del suo carattere: caparbio, temerario, ambizioso, non pavido, dalla pelle chiara e dalla folta barba bianca, dal grande coraggio e dall’estrema forza di volontà.

Se gli indigeni lo amavano, certo è, che, nonostante le sue grandi imprese, la sua figura resta ignota al grande pubblico, sorta di sfortunato inseguitore di ideali e di riscatto sociale, anche se questa mostra, gli regala la giusta attenzione e un posto nel mondo degli esploratori di tutto rispetto.

Giovanni Miani

Miani nasce a Rovigo, da una domestica che non dichiarerà mai il nome del padre. Cresce in ristrettezze, lavorando nei campi, fino ai 14 anni, quando raggiunge la madre a Venezia, dove prestava servizio presso la dimora del nobile Bragadin, che molti dichiarano esserne il padre. L’adolescenza è per Giovanni un momento di vera e propria rinascita culturale. Del resto il giovane Miani viene formato a Cannaregio da maestri d’arte e lettere, anche se continua a sentirsi un “bastardo”.

Nel 1828 muore il suo protettore e Giovanni, insieme alla madre, eredita una cospicua somma di denaro. Sono anni in cui Miani prosegue gli studi, di musica e poesia in particolare, e si sposta a Napoli, Pavia, Bologna, Francia e Spagna, mentre a Padova studia la Storia Universale della Musica, e sono pure anni in cui si dedica alla stesura di una storia sulla musica e tenta la carriera di baritono. Partecipa a eventi mondani e viaggia, fuori dall’Italia, in Spagna e Francia, e inizia una catalogazione di strumenti e tradizioni musicali dei popoli stranieri.

Questo fine diventa il comune denominatore per i suoi spostamenti che vengono da lui raccontati attraverso dei diari in cui unisce agli scritti una serie di illustrazioni, essendo molto bravo a disegnare. Per via epistolare ottiene anche il sostegno di Gioacchino Rossini alla sua “Storia Universale della musica di tutte le nazioni”, anche se purtroppo l’opuscolo viene accolto freddamente dalla comunità e finisce nel nulla anche il tentativo, nonostante l’appoggio di Pio IX, di aprire a Roma una scuola di musica pratico-pitagorica, contrastato dall’Accademia di Santa Cecilia.

Nel 1848, con i primi moti carbonari, Miani difende Marghera, e, per evitare la prigionia, si trasferisce prima a Malta e poi in Egitto. Rientra in Europa, oramai in ristrettezze economiche, e impossibilitato a pubblicare il seguito di “Storia della musica…”, riparte per l’Egitto, e, durante i quaranta giorni di navigazione nel Mediterraneo, matura l’idea di partire alla ricerca di Ophir, la terra dalle immense ricchezze ricordata nella Bibbia, che, secondo le credenze dell’epoca coincideva con le sorgenti del Nilo. Nel 1859, con un modesto finanziamento del governo francese, riesce a partecipare a una spedizione che lo porta a Khartoum, città da poco fondata dagli inglesi, che sorge fra i due rami principali del Nilo, quello Azzurro e quello Bianco. Del primo si conosce l’origine, il secondo è invece interesse delle spedizioni delle potenze europee che mirano a impossessarsi dei territori strategici lì intorno, qualora si fosse realizzato quello che diventerà il Canale di Suez.

L’avventura

Ed è in quel frangente che la passione per la scoperta, per l’avventura, per l’ignoto, s’impossessa dell’anima di Miani. Da Khartoum il rodigino deciderà di proseguire il suo cammino, nonostante i suoi compagni decidano di non seguirlo. Riesce a raggiungere a 1500 km a sud della città Gondokoro, trascrivendo le sue giornate, quello che vede, chi incontra, nei suoi diari e tracciando una mappa dettagliata del suo itinerario, destinata alla Società Geografica Francese. La sua spedizione terminerà poco oltre Galuffi, non lontano dal lago Nianza (che verrà ribattezzato Victoria) senza raggiungerlo per via di una febbre che non l’abbandona e di una piaga ad una gamba, che lo frenarono nel suo viaggio, insieme all’ostilità delle popolazioni indigene.

Traccia del suo passaggio la lascia sul tronco di un tamarindo. Intanto per gli indigeni è diventato “il Leone Bianco” per il suo coraggio e la sua folta barba bianca. Nel frattempo gli inglesi Speke e Grant annunciano al mondo la scoperta delle sorgenti del Nilo, individuate nel lago Victoria, raggiunto nel 1858. Per Miani non resta che rientrare in Europa, insieme a quattordici casse con mille e ottocento reperti stipati dentro. Ma quella collezione non riesce a venderla, e la lascia in dono alla sua città d’adozione: Venezia. Tessuti, armi, minerali, strumenti musicali etc, trovano collocazione nel Museo della Storia Naturale della città lagunare.

Ma per Miani il suo rapporto con il continente africano non può finire così, il mal d’Africa torna prepotente, e lo fa tornare a Khartoum prima, dove diventa direttore dello zoo della città, e in spedizione poi verso il Mombuto, l’attuale Zaire, in qualità di esperto scientifico e cercatore di specie animali da inserire nello zoo. Riesce a catturare anche due pigmei e viene ospitato dal re Bunza. Morirà a Nangazizi nel novembre del 1872. La notizia della sua scomparsa giunge a Venezia solo un anno dopo e la sua tomba sarà rinvenuta nel 1881, destinando i suoi resti all’Accademia dei Concordi della natia Rovigo.

Un’esistenza, la sua, incredibile, fuori dagli schemi, di chi arso dalla passione per la scoperta, amante del rischio, tra storia, geografia ed etnografia, si lancia in imprese più grandi di lui, verso la ricerca dei suoi ideali e di riscatto sociale. L’esposizione – fino al 26 giugno, siamo verso l’ultimo periodo in cui è possibile vederla – che, attraverso oggetti, reperti, i diari, e anche dei video, in cui l’attore Natalino Balasso legge le testimonianze di Miani, e ci fa conoscere le idee e lo stile di Miani, racconta una figura davvero sui generis che è oggi importante recuperare alla memoria e valorizzare.

La Mostra

«Non conoscevo Miani – dice Balasso – ma fin da subito mi ha colpito il fatto che la sua figura fosse estranea all’aura retorica degli altri esploratori votati alla conquista e al successo. Emerge così il fascino romantico della sua umana fragilità, e la passione e forza morale di rialzarsi dopo ogni fallimento. Miani ci insegna – ricorda l’attore, originario del Polesine – che il fine non sta nella meta, ma nel coraggio di intraprendere sempre nuovamente il nostro viaggio. E se la scoperta delle vere sorgenti non fu esente da una certa dose di brutalità e cinismo, forse sarebbe giusto riconoscere a Miani il ruolo di scopritore morale delle sorgenti del Nilo».

Nata da un’idea di Sergio Campagnolo, curata da Mauro Varotto, docente di Geografia del Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova, la mostra è promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, e, troverete, lungo il suo percorso, anche il contenitore con i resti mortali dell’esploratore, mentre all’inizio o alla fine (dipende quando deciderete di ammirarla) dello stesso c’è anche una sorpresa che conquisterà i più piccoli: un coccodrillo rosa – di coccodrilli Miani ne incontrò molti, e tentò anche di catturarne uno – di plastica riciclata e riciclabile, la cui lunghezza vi sorprenderà, della Cracking Art. Nato nel 1993, è un movimento che unisce, al forte impegno sociale e ambientale, l’utilizzo rivoluzionario di materiali plastici per evidenziare il rapporto sempre più stretto tra vita naturale e realtà artificiale.

La bellissima immagine del manifesto, con un Miani, che incede al centro di un paesaggio fatto di sabbia, dune e antiche vestigia, è opera di Renato Casaro, il più importante “cartellonista” della storia del cinema: «ho raffigurato l’esploratore come un grande profeta, più che come un eroe all’Indiana Jones, perché nella sua ricerca di terre incognite Miani non è mosso da interesse per l’archeologia ma dal desiderio di scoprire terre, popoli, animali che nessun uomo bianco aveva ancora potuto vedere. Segna su carte geografiche ancora bianche le sue nuove rotte. Spinto da un sogno, o meglio, da un mito che nasceva dalla lettura della Bibbia, là dove si racconta delle infinite ricchezze che a Re Salomone giungevano dalle terre dell’Ofir. Alle sue spalle ho voluto disegnare una grande luce, forse un sole o la luna, a simboleggiare l’indomita volontà di andare sempre avanti, anche se vecchio e malandato, ripartendo dopo ogni sconfitta». Aperta sette giorni su sette, ad ingresso gratuito, su prenotazione consigliata, per info sull’esposizione potete visitare il sito ufficiale di Palazzo Roncale.